Quando la musica incontra la foresta

Tante volte sono una serie di casualità che ti proiettano dalla vita quotidiana ad una situazione totalmente insolita. Un sottile filo che lega parole a formare frasi e frasi a formare proposte. E dalla proposta all’azione, con un briciolo di fantasia, il passo é breve. Così oggi, senza un niente di preavviso, dalla mia scrivania di Krabi mi ritrovo, come per incanto, seduto sul balcone di una camera d’albergo che guarda la baia di Damai a Kuching, nel Borneo Malese, con lo sguardo fisso su un mare pigro e immobile, a godermi una tazza di caffè ed un tramonto; la scusa, o meglio la ragione, é il Rainforest World Music Festival. Navigando qua e là su internet salta fuori questo festival, considerato fra i 25 migliori del mondo. Due parole con Thomas, quasi uno scambio di battute, l’invio di una email e il gioco è fatto: in brevissimo tempo arrivano due accrediti, come giornalista e fotografo… neanche il tempo di ragionarci su che il destino ha già preso la decisione per noi: Pronti? Via!… Si parte.

Vallenato King Beto Jamaica – Image by Guglielmo

Fin dall’arrivo si respira un’atmosfera incredibile, c’è un gran fermento nella zona: volontari che sbrigano le loro mansioni, gruppi di musicisti che arrivano alla spicciolata da diverse nazioni, reporter, fotografi, organizzatori. Il mondo della musica etnica sembra essersi concentrato qui, nel Sarawak, quella terra che, fin da bambino, ha sempre suscitato su di me il suo fascino grazie ai racconti di Salgari. Certo, non c’è più spazio per i suoi pirati della Malesia o per i suoi cacciatori di teste, solo musica, percussioni, arte. Ma qualcuno, come Mathew Ngau Jau, una icona del festival al punto da avere prestato il suo volto per il manifesto ufficiale della manifestazione, mantiene quel taglio di capelli e quel modo di vestire tipici della vecchia popolazione locale. La sua gente non si chiama più Dayaki, nome che evocava per lo meno dei feroci mal di testa, ma Iban, che non è un codice bancario, ma un nome senza dubbio più corretto politicamente; Mathew non taglia teste, probabilmente le ultime le avrà tagliate suo padre, se non addirittura suo nonno; lui si limita ad imbottirle di note, di suoni, di quelle melodie che escono con grazia dal suo strumento: una specie di chitarra locale costruita artigianalmente, chiamata “sapé”.

Ci aggiriamo senza una meta precisa fra le varie zone dell’albergo godendo semplicemente di quello che ci circonda, lasciandoci assorbire ora dal paesaggio circostante, ora dalla varietà delle persone che si impigriscono sotto il sole ai bordi della piscina o sulla spiaggia, che sorseggiano un drink, che si registrano all’accettazione dell’albergo o raccolgono informazioni al banco del Rainforest Festival. Gente di tutte le razze, arrivate da paesi più o meno vicini ma accomunati tutti da una medesima passione: la musica.

Pine Leaf – Image by Guglielmo

Curioso; in un mondo in cui si tende a globalizzare, ad appiattire, ad adeguare il particolare ad un “generale” più anonimo, nel villaggio del Rainforest World Music Festival mi passa sotto gli occhi una situazione diversa: sono le realtà locali il fulcro, l’ombelico del mondo musicale: sono il folk, l’etnico, il regionale che impongono la forza delle loro identità ad un pubblico internazionale desideroso di conoscerle e che, nello spazio di tre giorni si immedesimerà ogni volta in una tradizione musicale diversa, rendendola propria. Ed allora, per parafrasare il “berlinese” Kennedy, qui oggi siamo tutti ora africani, ora croati; oggi un po coreani, domani più colombiani. Non ci sarà spazio per l’anti-americanismo quando i Pine Leaf Boys intoneranno i canti della Louisiana accompagnati da violini e fisarmoniche, e il nucleare iraniano passerà necessariamente in secondo piano quando Mohsen Sharifian & the Lian Band si esibiranno sul palco con i loro brani e le loro danze tradizionali, spiegando fra un pezzo ed un altro che l’interpretazione religiosa nel loro paese non consente loro di rappresentare la loro arte in casa propria e che riescono a tenere, sia pure con difficoltà, solo concerti all’estero. Quasi commoventi questi ragazzi iraniani, per la passione genuina che nutrono verso le loro tradizioni e con la quale espongono le proprie difficoltà casalinghe. È proprio vero… Nemo profeta in patria.

Mohsen Sharifian & the Lian Band – Image by Guglielmo

Altri gruppi, invece, si nota che si sentono profeti sia in patria che fuori e si possono permettere il lusso di parlare di problematiche meno particolaristiche e più internazionali. Nel Sarawak, é chiaro, il tema di base é la foresta pluviale, che se é tanto bistrattata in tutte le parti del mondo, da queste parti trova un prezioso alleato nel governo della regione. Non é un caso che la prima cerimonia alla quale abbiamo preso parte ci ha visto piantare giovani arbusti in una zona della città che ne era sprovvista, ed é abbastanza significativo che parole come foresta, natura e protezione trovino qui un significato che esula dalla demagogia, ed una loro applicazione pratica. Le autorità sono abbastanza rigide nel mantenimento dei loro beni naturali, ci diceva una guida locale. Per dirla in soldoni, si può generare guadagno per tutti utilizzando le risorse naturali che ci circondano, piuttosto che sfruttarle, spremerle come limoni e poi piangere perché oramai le abbiamo perdute. E riescono a farlo pure con un certa coerenza e con un certo stile se è vero, come ci è stato detto, che il governo visita e risarcisce le vittime delle aggressioni subite da parte dei protetti coccodrilli.

Dizu Plaatjies – Image by Guglielmo

Così in una regione dove la natura é considerata madre veramente, i brani dedicati alla foresta dai Kries (croati), dai Chet Nuneta (gruppo di passaporto francese, ma multietnico sia nelle sue individualità sia nella produzione musicale), dai Dizu Plaatjies & Ibuyambo Ensemble (sudafricani) oltre, ovviamente, alla musica dei vari gruppi del Sarawak, gente per la quale le risorse della terra sono da sempre l’unica vera ricchezza, e rappresentano una colonna sonora adeguata sia allo spettacolare ambiente che ci circonda, sia agli sforzi concreti fatti da chi amministra la regione, fortunatamente con un certo successo.

Tutto il resto è musica, musica e musica ancora. Musica che vola fra oriente e occidente su note generate da strumenti tradizionali e moderni che vengono abbinati insieme in una armonia fra passato e presente. Del resto chi ha mai detto che un “diple” (specie di cornamusa usata dai croati) o una fisarmonica non possano avere come accompagnamento una chitarra elettrica, un basso o una batteria? Tutto quello che si produce qui é melodia, note, suoni, e poco importa da dove provengano.

Il festival si sviluppa in tre giornate, presso il Sarawak Cultural Village, a circa 45 minuti dal centro di Kuching, dove fra le bancarelle che vendono cibi malesiani tipici, fra tatuatori e venditori di souvenirs, si alterneranno conferenze stampa con le varie band, seminari interattivi dove anche il pubblico assume un ruolo da protagonista, e sopratutto i concerti serali.

Chet Nuneta – Image by Guglielmo

I seminari pomeridiani suscitano senz’altro un grande interesse e una grande partecipazione. Del resto non può essere diversamente se i chitarristi o i percussionisti di ogni band si ritrovano insieme per presentare i propri strumenti, alcuni ben conosciuti e altri che sono oggetti misteriosi creati da chissà quale musa indigena, ma tutti che, quando si mettono a suonare insieme, si fondono in una medesima armonia che fa venire i brividi a chi ascolta.

In altri seminari, si danno dimostrazioni di danze tradizionali e li, non si discute, la fanno da padroni gli aborigeni australiani con i corpi dipinti, che si lanciano in brevi ma suggestivi balli che richiamano la vita quotidiana in guerra e in pace, ma sopratutto il gruppo dei sudafricani, che si muovono sul palco con la grazia delle gazzelle, con un senso del ritmo che sembrano avere innato, con i movimenti flessuosi e sensuali delle loro donne che si accompagnano a quelli più virili e guerrieri degli uomini in un connubio di forme e gesti che lasciano senza fiato specie se accompagnati da quelle voci profonde che penetrano fino all’anima.

Dizu Plaatjies – Image by Guglielmo

La sera, infine, ampio spazio per i concerti che si susseguono senza interruzione per circa  cinque ore. L’apertura è affidata ai musicisti locali, ai loro canti, spesso preghiere o ringraziamenti alle divinità, a strumenti che mai avresti creduto esistessero come il flauto da naso, ai loro costumi tradizionali che ti riportano per un breve momento ad un epoca che non esiste più ma di cui si continua a tramandarne la memoria. Poi è la volta dei gruppi stranieri che gratificano il pubblico e ne vengono gratificati a loro volta a colpi di entusiasmo, di partecipazione, di ballo. Ogni band riflette ovviamente le caratteristiche del suo mondo per strumentazione, ritmi, capacità di gestire la scena e tutti, senza eccezione, hanno dato motivo di esaltazione ad un pubblico desideroso di esaltarsi esprimendosi al massimo e dando prova di essere i primi a divertirsi, come i colombiani che il ritmo, la musica e la cumbia ce l’hanno nel sangue e sembra quasi che non ne possano fare a meno, o come i danesi, una vera e propria mini orchestra fatta di archi, fiati, tastiere chitarre e fisarmonica, che cantando e suonando ti facevano immaginare di vivere l’atmosfera di una fumosa birreria di Copenhaghen.

Il momento però particolarmente emozionante, almeno a livello personale, la punta massima di un festival che di emozioni ne ha offerte a fiumi è stata la performance del gruppo sudafricano e le parole del suo leader in omaggio a Nelson Mandela, seguito dalle canzoni che gli hanno dedicato. Alle mie spalle un pubblico che si agitava entusiasta al ritmo dei tamburi, nella mia mente la consapevolezza che il mal d’Africa è come la malaria: si ripresenta periodicamente…

I tre giorni di musica sono volati portati via dalle note che hanno riempito ogni foglia della foresta. La musica è finita, gli amici se ne vanno… I musicisti che hanno terminato i loro spettacoli cominciano a ripartire già dal pomeriggio del terzo giorno e la notte si spengono le luci della ribalta e cala il sipario sul Rainforest World Music Festival. La calma cala sul Sarawak Cultural Village e sull’albergo che ci ha ospitato insieme ai musicisti. Un silenzioso arrivederci che sembra un addio. Dal balcone della mia camera osservo lo stesso spettacolo del primo giorno, questa volta in notturna; mi colpisce il silenzio, l’assenza di musica. Poi lontano una fisarmonica, delle percussioni… Un illusione? No, una cumbia… i colombiani, che la musica ce l’hanno nel sangue, non ci stanno a finirla così e con gli ultimi avventori al bordo della piscina, si lanciano ancora una volta fra suoni e balli; passa poco tempo e si aggiungono a loro un violino e una fisarmonica danesi e l’atmosfera magica di questo Rainforest Festival andrà avanti ancora per il resto della note, trasformando un malinconico addio in un arrivederci: arrivederci al Rainforest World Music Festival 2014.

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