Momenti da favola, o forse momento delle favole.
Si perché passeggiando qua e la fra gli stand, i concerti, gli incontri con le persone più varie ed affascinanti c’è sempre una storia da sentire, un racconto di vita che non può non mettere in moto la tua fantasia o scatenare in te un fiume di emozioni. Storie vissute o leggende o fatti reali che vengono tramandati da generazioni. Favole, nel senso più vero del termine, quelle brevi narrazioni, cioè, di cui possono essere protagonisti sia gli uomini che gli animali, le piante o altri esseri inanimati, che in generale sono il simbolo o la rappresentazione di aspetti di vita tipicamente umani il cui fine è di far comprendere in modo facile e piano una verità morale. Le verità morali nascoste nelle storie che seguono le lascio a chi vorrà arrivare fino in fondo, io mi limito a riferirle come me le hanno raccontate, sperando che nel definirle “favole” non si rivoltino nella tomba i vari Esopo, Fedro, La Fontaine, Trilussa e tutti quegli scrittori, quelli veri intendo, le cui favole abbiamo ascoltato fin da bambini e con le quali siamo cresciuti.
“Domine non sum dignus”… sono solo poco meno di un cantastorie.
Favole comunque, dove gli animali hanno magari un ruolo fondamentale ma dove il vero protagonista è sempre l’”orang”: la persona.
Fiona è un’artista originaria dalla tribu Melanau. La incontriamo al “Borneo Boat Lute Revival”, una mostra interattiva volta a tenere viva nelle nuove generazioni e, perché no, a far conoscere agli starnieri, l’arte delle varie forme di liuto malese. Istintivamente simpatica e socievole, parla e racconta con piacere: “La mia famiglia ed io non possiamo mangiare carne di cervo” a causa di un accordo, una specie di contratto, siglato centinaia di anni prima fra un suo antenato e… un cervo. Niente di scritto, naturalmente, tanto meno una stipula notarile ma, non per questo un patto meno vincolante e significativo. Ha appreso questa storia a sue spese quando all’età di nove anni, avendo accidentalmente mangiato della carne di cervo fu colpita da un forte sfogo cutaneo. Anche se Fiona è una donna giovane, forse quando era una bimba non c’erano nelle vicinanze specialisti da consultare, fu così che una zia, una delle sorelle di suo padre, le suggerì la cura da seguire: doveva prendere dei frammenti di corna di cervo, ma senza ammazzare l’animale, doveva raccoglierne le schegge che cadevano quando il cervo “affilava” le corna sugli alberi, mischiarle a delle essenze, bruciarle e… “farsi affumicare” per tre notti consecutive.
Naturalmente Fiona guarì.
Si, va bene, una banale allergia alla carne di cervo e si potrebbe archiviare l’incidente ma mica siamo in una fredda metropoli americana senza sogni, siamo in un Sarawak dove c’è ancora spazio per favole e leggende. Fiona chiede alla nonna e questa le narra di un suo antenato, un cacciatore che, inoltratosi nella foresta per procurare del cibo, a causa di un incidente, si ferì gravemente ad una gamba. La ferita stentava a guarire e la gamba continuava a perdere sangue, pareva quasi non ci fosse una via di scampo e che il destino dello sfortunato cacciatore fosse quello di morire dissanguato. Ma, evidentemente, qualche spirito benevolo aveva deciso diversamente. Arrivò un cervo che prese a leccargli la ferita fino a che questa non guarì completamente e l’uomo fu salvo.
Il cacciatore, grato all’animale, stipulò con lui un patto in base al quale non avrebbe dovuto esserci spargimento di sangue fra le generazioni future dell’uomo e del cervo vincolando al patto i discendenti dell’uomo che non avrebbero mai più dovuto mangiare la carne dei discendenti dell’amico cervo.
Fiona accettò di buon grado la spiegazione ma le rimaneva un dubbio: per quale motivo uno dei suoi fratelli che viveva a Kuala Lumpur aveva mangiato più volte la carne di cervo senza subire alcuna conseguenza? Ma è ovvio… l’accordo era con i cervi del Sarawak, mica con quelli della Malesia peninsulare.
Ride Fiona a questa spiegazione e sottolinea che “così non è giusto”.
Nonostante le ingiustizie della vita, alla mia domanda se le fosse mai venuta la fantasia di andare a mangiare carne di cervo a Kuala Lumpur con il fratello, Fiona ha risposto che fu tanto traumatizzata da quella esperienza che in futuro non avrebbe mai più mangiato di quella carne in nessuna parte del mondo.
Fiona e la sua gente non sono l’unico caso di “proibizionismo” dal mangiare carne e, senza stare a scomodare gli indiani con le loro vacche sacre, o i musulmani con le impure carni del maiale, trovo un’altro esempio ancora qui in Borneo i cui protagonisti questa volta, oltre ovviamente agli uomini, sono i coccodrilli.
In passato avevo raccontato di come il governo del Sarawak per proteggere i coccodrilli, risarciva le famiglie delle vittime di questi rettili per evitare che una caccia vendicativa e indiscriminata potesse portare all’estinzione di questi terribili animali, me lo raccontò una guida locale durante un tour. I coccodrilli hanno così proliferato diventando talvolta un pericolo per la gente, specialmente nel mare, nelle spiagge e in quei tratti di costa vicini alle foci dei fiumi.
Così le “favole” sui coccodrilli si sono arricchite di nuovi particolari spesso in contraddizione fra loro, dimostrando che anche il mio oriente ha un che di “Pirandelliano” dove esistono tante verità quanti sono le persone che ritengono di possederla. Durante questo mio ultimo viaggio in Borneo, ad esempio, un amico mi ha spiegato che in realtà il governo consentiva di sopprimere quel coccodrillo che aveva ucciso un essere umano, ma specificatamente quel coccodrillo: l’assassino.
Sono certo che vi starete domandando come si può identificare con certezza il coccodrillo colpevole, ne sono certo perché sul momento me lo sono chiesto anche io, beh è facile perché l’animale, come l’assassino di tanti film o libri gialli, torna sempre sul luogo del delitto, il coccodrillo poi non se ne allontana proprio, il cibo lo ha trovato lì.
In una cultura, originariamente animista, dove si incontrano qua e la spiriti più o meno bonari e più o meno maligni non si può poi prescindere dagli spiriti dei defunti che, come anche in altre culture, vengono venerati e onorati. E se un parente viene sbranato da un coccodrillo, poiché il suo spirito continua a vivere nel coccodrillo stesso, parenti e amici rinunciano a cacciare e a mangiare questi rettili per diverse generazioni, pare siano sette, hai visto mai in quel coccodrillo ci fosse lo zio mangiato qualche mese fa…
Storie che, come ho detto, ho ascoltato parlando con persone del posto, storie che non ho voluto approfondire per scoprirne la veridicità. Mi sono piaciute così e tanto basta. In quanto a voi per restare nel “pirandelliano”…
…così è se vi pare.
Le favole hanno quasi sempre il lieto fine e tra Kuching e Miri abbiamo avuto l’occasione di ascoltarne alcune. Ci parlano di donne in un tipo di società dove queste potrebbero fare fatica ad emergere, ma quando emergono sono sempre personalità quasi dirompenti, espressione di un carattere solido che ha come meta la propria affermazione pur non voltando le spalle alla propria religione, alle proprie tradizioni e alle regole della comunità, magari cercando di arrivare dove desiderano, come vedremo, con l’aiuto di qualche innocente sotterfuggio, ma dimostrando alla fine di avere avuto ragione grazie ai loro meriti, in un mondo dove nessuno ti regala quote rosa.
Nikita Sarna è di Miri e ha undici anni, forse non ha ancora un carattere ben solidificato ma appare sicura di se anche se è di poche parole, decisa nelle sue scelte e con le idee molto chiare. È l’artista più giovane ad esibirsi da solista sul palco scenico del RWMF. In realtà la sua esibizione avviene su un palco secondario e il pubblico la può ammirare solo attraverso schermi giganti posizionati qua e la, forse per ragioni logistiche o forse, chissà, per evitare che si emozioni in pubblico. L’abbiamo incontrata nella sala stampa del festival dove era pronta a rispondere alle domande di chi, giustamente, era colpito dalla sua giovanissima età e, benchè ci abbia raccontato che alla sua prime esibizione pubblica fosse quasi terrorizzata, in realtà, come già detto, è apparsa sicura e decisa di fronte a noi, forse perchè affrontava microfoni e taccuini seduta al fianco di Alena Murang, che invece è già un’artista affermata. Una celebrità. Nikita e Alena, hanno parecchie cose in comune: in primo luogo due bei visi sorridenti, in secondo luogo entrambe non hanno avuto grandi difficoltà ad intraprendere la loro carriera musicale nonostante fossero donne in un paese sostanzialmente patriarcale e, per finire, hanno in comune lo strumento che usano: il sape, di cui abbiamo accennato più volte.
Ma andiamo per ordine: Nikita, che a detta di Alena, “suona il sape come un uomo vecchio”, è senza dubbio un astro nascente con un futuro brillante di fronte a se, ma il sentimento che lascia trasparire maggiormente, anche se ben celato, è l’eccitazione di una bimba: “tutto mi sembra eccitante qui, è la mia prima volta a Kuching e non vedo l’ora di incontrare Jerry Kamit che è stato il mio primo idolo”. Si dice sorpresa che Alena la abbia portata al festival e mostra un senso di sorpresa sgranando gli occhi ogni volta che ne parla, come se fosse al suo primo festival. Il che è vero, salvo il fatto che lei non può essere solo una spettatrice desiderosa di vedere i suoi idoli, Nikita è una musicista ed è già l’idolo di qualcuno che sarà presente anche o, forse, solo per lei.
Si è innamorata del sepe a soli 6 anni, ascoltandone il suono nelle riunioni di famiglia, per poi dichiarare alla madre che avrebbe voluto imparare a suonarlo. Detto e fatto: lo zio gli ha costruito il suo primo sape che ha iniziato a suonare all’ età di 9 anni e il resto è storia e, chissà, forse un giorno potrebbe diventare leggenda. A Kuching, come accennato, ci è venuta su invito di Alena che le fa un po’ da madrina, la guarda quando risponde e le sorride come farebbe una sorella orgogliosa.
Ed Alena? Beh Alena, nonostante la giovane età, è un’artista affermata. Al festival si esibisce da sola nei workshop, dove sono riuscito ad ammirarla, e sul palco scenico insieme al suo complesso. Nei workshop dove suona in maniera tradizionale per fare conoscere il suo strumento al pubblico, suona il suo sape con la dolcezza di una bambina che accarezza la sua bambola preferita. Poi nei concerti si lascia andare dando spazio alla sua personalità e a quella della sua band. “Nella mia musica voglio trarre ispirazione dalle nostre tradizioni ma al tempo stesso voglio metterci una parte di quello che siamo”. Alena fa parte di quella che definisce la prima generazione nata al di fuori della foresta pluviale, ragazzi moderni cresciuti con le prime televisioni, che ha ancora un profondo contatto con le loro radici, che rispettano profondamente, ma che ha altresì una propria vita “contemporanea”.
Ecco, nella sua musica vuole mischiare insieme le due cose. Infatti, quasi a conferma di quanto detto, ha le sue radici nel Sarawak, a Kuching, ma la sua vita e il suo lavoro si svolgono nella modernissima Kuala Lumpur.
Musicalmente, racconta, è stata influenzata, sin dall’adolescenza, dal fratello maggiore che le ha fatto percorrere i sentieri del Rock, I Nirvana sono fra i suoi gruppi preferiti, poi con suo cugino, ben conosciuto a KL nel mondo del Heavy Metal si è spinta oltre fino a costituire un suo gruppo che sintetizza le sue concezioni musicali in uno spettacolo che fonde insieme rock, appunto, pop, folk, lasciando spazio alla sua cultura di origine sia suonando il sape, sia attraverso i costumi di scena che richiamino, anche negli accessori, l’abbigliamento che si usava un tempo. Così salirà sul palco fasciata da un ferma capelli fatto di perline e conchiglie.
C’è un filo sottile che collega Alena con Nikita, e ad un capo di questo filo c’è Matthew Ngau Jau, che le ragazze chiamano afettuosamente “Zio Matthew”, un’icona indiscussa nell’ambito musicale del Sarawak, da tutti conosciuto come un’autorità del “sape”, e nel mezzo gli altri musicisti che hanno fatto la storia di questo strumento. È il filo sottile delle tradizioni che pur subendo i necessari cambiamenti con il passare dei tempi, mantengono sempre ben salda una radice comune e, in fondo, anche questa è un po’ una favola.
Poi c’è la favola della volpe e dell’uva, sempre attuale, che in questo universo parallelo che sembra essere il Borneo, potrebbe portare ad una morale differente: se la volpe non arriva all’uva, non ci si deve arrendere stabilendo che l’uva è marcia, meglio ingegnarsi per raggiungerla a tutti i costi. È un po’ la favola di Fauziah Gambus, di cui ho raccontato in un capitolo precedente.