Personalmente apprezzo in maniera quasi esagerata le tradizioni. Quelle frasi, azioni, eventi, in una parola sola, quella cultura che caratterizza le radici di un popolo e che, in forma orale o scritta, viene tramandata di generazione in generazione. Credo sia importante sapere da dove veniamo e a chi o a cosa siamo debitori se oggi siamo quelli che siamo.
Certo, il mondo si sta restringendo, i popoli si stanno mischiando fra loro generando nuove culture figlie di un mix fra le culture di origine e si va rapidamente verso un mondo la cui nuova parola d’ordine è globalizzazione, che sarebbe anche una bella parola, fine a se stessa, se non fosse che il significato che le viene attribuito quasi universalmente non appaia come esclusivo, inteso nel senso che tende ad escludere le singole culture a vantaggio di una “non cultura” che deve comprendere tutti ma che non rappresenta nessuno.
E non è un caso a, mio parere, che la globalizzazione figlia di una non cultura nasca da quell’America che non avendo radici antiche ha dovuto andarsene a creare di proprie che hanno trovato fondamento sostanzialmente sui concetti del pionierismo, della corsa all’oro e nel mito del paese che offre a chiunque una chance per diventare qualcuno. Un mito, una “cultura” che, in poche parole, trova il suo fondamento nella ricchezza.
Dove l’America ha invece trovato un eccellente spunto culturale, sia pure condiviso con la sua ex madre patria, l’Inghilterra, è nel campo musicale. Dirò una ovvietà ma è noto a tutti che i generi musicali più significativi provengano dagli Stati Uniti che, senza dubbio, hanno rappresentato la culla della musica contemporanea mondiale, ma anche in questo caso si evidenzia l’aspetto globalizzante che tende ad escludere gli “altri” dalla composizione di quella nuova cultura che invece deve comprendere tutti.
Lo dimostrano, ad esempio, le polemiche sorte intorno alla definizione di World Music, termine che è stato coniato dall’etnomusicologo americano Robert Edward “Bob” Brown per descrivere la musica influenzata dalle culture tradizionali, ed ha assunto un significato quasi dispregiativo per l’uso che ne viene fatto dall’industria musicale e dalle etichette discografiche del mondo occidentale negli anni ’80 per descrivere registrazioni non inglesi, classificando così “la maggior parte della musica non occidentale in un gruppo emarginato destinato ai margini dei festival musicali e agli angoli solitari dei negozi di musica” (Brian Clark: polistrumentista e produttore musicale).
Per carità, non voglio andare ad avventurarmi su una polemica di tipo anti americano in questa sede, ma questa premessa mi sembra necessaria per evidenziare l’atteggiamento opposto che spesso si va a riscontrare nei paesi asiatici che, lo sappiamo bene sono figli di civiltà antiche e che, specie nel campo musicale, tendono ad evidenziare le grandi differenze tra gli artisti classificati all’interno di questo genere esaltandone la diversificazione culturale.
Qui in Asia, e nel caso specifico nel Sarawak, il progresso nelle sue varie forme non può prescindere dal passato: il popolo Dayak oggi si chiama Iban, si è ovviamente modernizzato, ma mantiene ben saldi i principi di un passato a cui è sempre legato. Lo si vede in quanti ancora abitano per scelta nelle Longhouses, delle specie di “condomini” in legno e ad un piano, costruiti spesso su palafitta, che ospitavano parecchie famiglie e che sono state create alle origini con lo scopo di mantenere unito il gruppo per difendersi dalle frequenti escursioni di altre tribu; lo si vede nei tatuaggi, che quasi tutti hanno e che rispecchiano simbologie di tempi andati; lo si vede in maniera particolare nell’evoluzione della musica locale che pur guardando avanti, mantiene sempre una certa attenzione verso quanto prodotto dai propri padri.
Lo abbiamo notato subito, fin dai consueti incontri con gli artisti, dove in più di una occasione è stato rimarcato quel sottile filo, neanche tanto invisibile, che lega indissolubilmente varie generazioni.
I Pinanak Sentah sono sei ragazzini con il viso pulito e con occhiali che denunciano parecchio tempo speso sui libri. Malesiani di Siburan, meno di 50 km da Kuching, in qualche modo stanno realizzando il loro sogno musicale. Una famiglia: fratelli e cugini accompagnati dal padre, musicista anche lui, che però non fa parte del gruppo. Non ne fa parte fisicamente, perché idealmente è l’ispiratore dei suoi ragazzi, figli e nipoti compresi fra i 15 anni del batterista Emmanuel e i 26 del chitarrista Akinson e del tastierista Rick. Suonano un mix di musica tradizionale e moderna accompagnati sia da strumenti tradizionali che moderni e così passiamo dal sape e dallo xilofono in legno al basso, alla batteria e alla chitarra elettrica con la disinvoltura di musicisti consumati.
La continuità si coglie anche sugli abiti di scena che mischiano tagli moderni che richiamano uno stile antico con altri, figli di vecchie usanze ma rivisti in chiave più attuale.
Fin dal momento di scambiare due chiacchiere fuori dal palco, denotano una certa sicurezza, non ostentano sorrisi perché il sorriso che si accende sui loro volti non è ostentato, è genuino, spontaneo, tipico di quella età in cui si guarda al mondo con fiducia, consapevole che il mondo è nelle proprie mani.
Poi li vedi sul palco, e se c’è ancora spazio per una trasformazione, quella avviene là: Emmanuel percuote con abilità lo strumento facendo scivolare le bacchette sulla batteria con l’esuberanza dei suoi 15 anni; Natalina, 17 anni, che sembrava quasi intimidita dalle nostre domande durante la conferenza stampa, sostituisce i suoi occhiali da prima della classe con un colorato ferma capelli di perline, si immerge in un mondo suo privato, e produce suoni armonici dal suo jatung utang, una specie di xilofono in legno, concentrandosi con aria seria solo sul suo strumento. Sorride poco sul palco, forse il numeroso pubblico che ascolta in religioso silenzio la rende un po’ nervosa, è pur sempre poco più di una bambina, ma se anche lo fosse non lo da a vedere e trasmette una sensazione di padronanza degli strumenti che suona. E solo quando al termine di ogni pezzo il silenzio viene interrotto da fragorosi applausi, si lascia andare ad un sorrisetto impercettibile. Quanta bellezza.
Poi c’è Ethania (20 anni), un po’ defilata sullo sfondo che suona il basso: con delicatezza, eleganza e sicurezza e davanti ci sono i due front men che insieme rappresentano la sintesi ideologica del gruppo: Ethaniel, 22 anni, un taglio di capelli ordinato, un abbigliamento tendente al tradizionale e, fra le braccia un “sape” che padroneggia senza esitazioni; il già nominato Akinson, un nastro rosso fra i capelli ed un atteggiamento che ricorda un po’ Jimi Hendrix, alla chitarra elettrica. I Pinanak Sentah sono lì, sul palco, col padre/zio che, dopo avere passato a loro il testimone della tradizione, osserva da dietro le quinte che questa favola musicale malese, prosegua il percorso verrso il futuro senza amnesie verso il passato.
Sono le seconde generazioni, gruppi cresciuti fra la musica tribale dei padri e il rock, il jazz, il pop. I Wayan Balawan ad esempio è un musicista oramai cinquantenne di Bali ed è considerato, nell’ambito della World Music, uno dei chitarristi più veloci al punto di essere soprannominato il “chitarrista dal dito magico”, negli ambienti musicali Indonesiani. Balawan è cresciuto ascoltando Rock, mi parla di quella sua passione per i Beatles e i Deep Purple che ci accomuna, e mi racconta di come sia passato dal “gamelan”, un tipo di orchetra tradizionale indonesiana, al rock per arrivare al jazz, che ha studiato presso l’Australian Institute of Music di Sidney mantenendo un contatto con la musica dei padri attraverso agli strumenti utilizzati dalla sua band.
Al Rainforest World Music Festival si è presentato con la formazione che ha fondato al ritorno dall’Australia, i Batuan Ethnic Fusion, che combinano lo stile balinese del gamelan con una forma di jazz fusion e che hanno dato vita ad uno spettacolo brillante ed entusiasmante.
Sono solo due esempi fra tanti di questi passaggi generazionali di cui siamo stati testimoni durante il festival, ma questa mentalità, questa ferma volontà di non voler vedere lo spegnersi delle arti antiche dei popoli del Sarawak, comincia a diffondersi anche ad un livello educativo.
La Persatuan Anak Seni Sape Kuching è un’organizzazione non governativa che si rivolge ai bambini per insegnare loro come suonare il “sepe”, il più tradizionale fra gli strumenti tradizionali, e dopo meno di un anno di attività hanno raggiunto già una trentina di iscrizioni che fanno pensare che la musica tribale avrà una sua continuità ed un suo futuro.