Penang, sorprendente ed invitante

Penang un punto di incontro per gente di tutto il mondo

Penang, un nome che per la maggior parte degli espatriati che vivono nel sud della Thailandia, rappresenta una specie di incubo, un luogo angusto dove sembra doversi recare per espiare la colpa di vivere in uno dei paesi più brillanti del Sud Est Asiatico. È proprio a Penang infatti che si deve andare periodicamente per rinnovare il proprio visto, turistico o di lavoro che sia, per poter continuare la propria vita nel regno del sorriso. Quasi quotidianamente incontri un amico o un conoscente che con una espressione mista fra il triste, l’annoiato e l’irritato ti dice: “maledizione, domani devo andare a Penang”. Preparandosi così mentalmente ad un lungo, stancante tragitto, il più economico e rapido possibile fatto di minibus, burocrati e attesa. Un soggiorno di una o due notti fatto di niente che non sia una noiosa passeggiata avanti e indietro lungo Chulia Street, lunghe ore ad oziare sul letto della pensione in attesa che il tempo trascorra, continue visite al banco della guest house per chiedere se il sospirato visto sia arrivato e alla fine, quando il passaporto finalmente viene riconsegnato, decorato con l’agognato timbro, caricarsi lo zainetto che era già pronto perchè non è stato mai disfatto e correre a prendere il minibus di ritorno che era stato prenotato per prima cosa fin dall’arrivo a Penang.

L’ho fatto anche io. Sono venuto a Penang decine e decine di volte, in questi vent’anni di Asia, anche io con lo stesso spirito che sembra tramandarsi da expat a expat, con la stessa voglia di tornare immediatamente, cercando ogni volta la maniera più rapida e meno dispendiosa per intraprendere nel modo migliore questo “viaggio all’inferno e ritorno”.

Quegli scorci che hanno reso George Town patrimonio dell’umanità – Bancarelle

Poi un giorno mi sono chiesto se davvero Penang fosse un posto così abominevole da non meritare neppure di uscire dal confino di Chulia Street, se fosse davvero talmente noiosa da non dedicargli nemmeno una visita di qualche giornata in più dello stretto necessario. In fondo se l’UNESCO ha inserito George Town nella lista dei patrimoni dell’umanità un motivo dovrà pure esserci. Ed infatti un primo motivo salta all’occhio già leggendo un depliant: a Penang, nella città storica di George Town appunto, fondata circa 200 anni fa, ci sono più di 1700 costruzioni di interesse storico che si richiamano alle varie etnie che ne compongono la popolazione: una città la cui anima è formata da cinesi, indiani, arabi, malesi, achehnsi, thai ed europei che convivono ovviamente in maniera pacifica ed in un assoluto rispetto reciproco.

Si dice che siano i noodle migliori di Penang

E in effetti, già se si passeggia per Chulia Street, con la mente sgombra dall’ossessione del visto, si ha una immagine totalmente diversa della via che per tanti anni ho osservato con un filtro “grigio-triste” davanti agli occhi. È una via vivace, movimentata, un viavai di gente di tutte le razze, un punto di arrivi, di incontri e di partenze. Un mondo di colori, un mondo di odori alimentari pungenti che si susseguono di vicolo in vicolo, di via in via, quasi fossero un menù olfattivo che invita ad assaggiare i sapori di mezza Asia. La sera si trasforma in un grande ristorante all’aperto fatto di bancarelle che propongono per la maggior parte una deliziosa cucina cinese dove con poco più di un euro puoi mangiare un’abbondante zuppa di spaghettini e ravioli di soia con sottili fettine di maiale e bere un frullato di frutta fresca, alzandoti da tavola con la sensazione di essere soddisfatto o, più in la, in quel modesto ristorante indiano, poco più di un buco, uno spezzatino di manzo al curry rosso ed un paio di focacce da intingere in una salsa sempre al curry, ma stavolta giallo, seguite da un caffè preparato secondo la tradizione, costa circa tre euro.

Quegli scorci che hanno reso George Town patrimonio dell’Umanità – Entrata di un’abitazione

Tutto intorno le costruzioni edificate sul modello cinese, casa e bottega, praticamente, dove al piano terra si svolge la propria attività di artigiani, di meccanici o di venditori di oggetti più vari, circondati da utensili o scatolette messi la in un ordinato disordine e comunque protetti dagli altarini dove si onorano gli antenati e si pregano gli dei, sempre apparecchiati con incensi, liquori o cibi. Dove la notte, prima di chiudere bottega al pian terreno per recarsi a casa ai piani superiori, si portano dentro biciclette, motorini e talvolta, nei locali più spaziosi addirittura le automobili.

Quegli scorci che hanno reso George Town patrimonio dell’Umanità – un risciò

Di giorno la via si anima ulteriormente e diventa il cuore pulsante di questo vecchio angolo di Penang. I rumori del traffico sono l’unica nota stonata che fa da contraltare a quello che si offre alla vista: i mercati che vendono ogni ben di dio, frutta, cibi vestiti, chincaglierie varie; le case con i muri scrostati e le insegne sbiadite e quelle con le facciate rifatte con colori pastello che pur mantengono un medesimo stile; i caffè che crescono innumerevoli nelle vecchie e nuove costruzioni, che si alternano ai vecchi ristoranti che definire “storici” non è un’esagerazione; le vecchie guest houses, storiche anch’esse, dove viaggiatori che guardano il centesimo, provenienti da ogni dove, trovano ancora un singolo posto letto in dormitori a pochi spiccioli.

Poi proprio li, ad un passo dalla pensione dove ho sempre dormito, giri l’angolo di una strada e ti ritrovi, come di incanto in un altro paese.

Il dio Ganesh

Little India è li, che ti aspetta, offrendoti una immagine diversa di Penang, diversa per lo meno da quella che ti aspettavi, perchè Penang, George Town, è anche questa. Il modo di vestire un po sciatto e trasandato dei cinesi, lascia il posto agli eleganti sari delle donne indiane, il rumore del traffico viene coperto da musica a tutto volume che esce ora da questo ora da quel negozio, creando una atmosfera da film boliwoodiano e dagli ingressi dei negozzi si affacciano le statue della Trimurti. Odori diversi, gente diversa, modi di vivere diversi, divinità diverse che la Malesia musulmana approva senza condizioni, coerente col suo slogan: “Malaysia, your second home”.

Un tatuaggio a tempo fatto con l’henne

Un “chapati” e pochi passi e sei già fuori da Little India, tornano i caratteri cinesi sulle insegne; una moschea sembra volere ricordare ai musulmani che ci sono anche loro, ne del resto possono passare inosservati gli uomini con la tunica bianca, il copricapo islamico e la barba lunga o le donne, col viso avvolto in quei veli che, se pur negano un pizzico di civetteria nascondendo magari un bel taglio di capelli, diventano una cornice che esalta i tratti spesso delicati del volto, vestite di tuniche dai colori sgargianti arricchite da disegni variopinti, talvolta con una decorazione floreale sul dorso della mano fatta con l’henne.

Continuo a camminare, raggiungo il lungo mare e mi inoltro verso dei pontili in legno a poca distanza dal ferry per la terra ferma. Qui sorgono le abitazioni di pescatori di mercanti, di vecchi portuali cinesi. Intere famiglie che vivono in costruzioni di legno sull’acqua, con le barche parcheggiate fuori, con i loro altari e i loro templi, in questi moli che risalgono al 19mo secolo. Le condizioni di vita sono un po cambiate da allora, il televisore è d’obbligo, da qualche casa si sentono uscire voci in cinese con l’enfasi tipica delle soap opera, le abitazioni sono spesso trasformate in negozietti di souvenir per turisti, per i quali questo villaggio è oramai una meta imprescindibile, ma si vede che il senso della tradizione ancora è vivo in questa gente che vive tuttora la propria vita al ritmo delle maree e con i tempi scanditi dal rumore della risacca sotto i propri letti.

Daerah Timur Laut – la moschea che si estende sull’acqua

E fuori dal cuore di George Town cosa mai ci potrà essere? Il solito depliant mi suggerisce ben 29 destinazioni dislocate qua e la. Ce n’è di che fermarsi a Penang per almeno dieci giorni. Le agenzie di viaggio locali offrono tour dell’isola che toccano solo alcuni dei luoghi più interessanti, ma preferisco un più libero “fai da te”. Scelgo due posti e mi avventuro con gli autobus locali. La mattina mi dirigo verso Batu Feringgi, dove sembra si trovino le spiagge più belle e gli hotel di categoria superiore. In realtà la mia meta è la moschea Terapung, che si estende sul mare ed è stata edificata su palafitte di cemento. Un minareto di sette piani domina sulla spiaggia a fianco e su una lingua di terra che, suppongo, dovrebbe scomparire con l’alta marea. Non è l’ora della preghiera così mi posso aggirare nella zona pubblica senza arrecare disturbo. La moschea è in uno stile misto di mediorientale e locale, un’ampia sala di preghiera che accoglie fino a 1500 fedeli e degli spazi aperti dove la gente può fermarsi a sedere sotto alcuni gazebo. Rigorosamente divisi, le donne dagli uomini sia nei locali della preghiera sia, ovviamente, i bagni, dove ogni buon musulmano deve fare le proprie abluzioni prima di pregare.

Al tempio dei serpenti

Nel pomeriggio, sempre sballottato dall’andamento a scatti di un autobus locale, per una tortura di circa 45 minuti, raggiungo nella direzione opposta il Tempio dei Serpenti: un tempio cinese che risale al 1850. Fine a se stesso si tratta solo di un tempio cinese come tanti, a Penang ce ne saranno a centinaia nascosti qua e la fra case e grattaceli, il che già non è poco, ma la sua particolarità e che questo tempio è dimora di un numero imprecisato di “vipere di Pit”, letali, come mi dice un addetto al tempio, che vivono in uno stato semi libero. Declino cortesemente l’invito alla foto ricordo avvinghiato ad un pitone, che lascio volentieri ai turisti giapponesi, e mi dedico alle vipere. In una sala ce ne sono una trentina immobili in bella mostra pigramente adagiate sulle travi di sostegno. Mangiano una volta alla settimana, mi spiegano, e dopo il pasto passano il loro tempo semi immobili a digerire. Altre vipere sono sistemate all’aperto, su alberi o sassi, in una zona protetta circondate da un alto muro, ma visibili al pubblico.

In un tempio cinese

Spostandomi verso la zona sacra del tempio, sarà perché è sabato, vedo un continuo viavai di fedeli che accendono incensi, pregano, fanno le loro offerte agli altari e di minuto in minuto, vengono quasi ricoperti da una coltre di fumo, tanti sono gli incensi e le candele utilizzate. Un ragazzo accompagnato probabilmente dal padre, brucia in un fornetto alcuni fogli simili a diplomi decorati in cinese: “sono soldi che mandiamo ai nostri defunti affinché possano utilizzarli nell’aldilà” mi spiegano in un inglese un po’ approssimativo. Sempre molto pratici i cinesi, chi avrebbe mai pensato ad una Western Union in paradiso?

Qualche ritocco alla tatua di Shiva

Esco dal tempio già soddisfatto ma le sorprese non sono finite. Sulla sinistra mi attira una torre color pesca decorata da alcune statue. Vado e mi ritrovo in un tempio indiano non indicato nel depliant. Al lato dell’ingresso un decoratore vernicia pazientemente a mano una statua, credo del dio Shiva; all’interno, fra altre statue di divinità variopinte, appoggiate su pareti di un grigio molto luminoso, un maestro insegna a dei giovani discepoli che, seduti per terra intorno a lui, lo ascoltano interessati e sorridenti. Mi immergo in quest’orgia di colori che non può che colpirmi dopo la predominante rossa dei templi cinesi.

La giornata volge al termine e mi preparo mentalmente a farmi sbattere a destra e a sinistra da altri 45 minuti di autobus per il ritorno. E con la giornata sta per finire anche il mio breve soggiorno in questa Penang che, benché vista e rivista, mi accorgo solo ora di avere appena cominciato a conoscere.

A gennaio mi aspetta una nuova visita per la cosiddetta “corsa del visto” ma questa volta, a dispetto di tutto di tutti, credo che non andrò tanto di corsa.

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