Ombre Cinesi

Quando ero bambino e giocavo con qualche mio compagno, uno dei tanti giochi consisteva nel proiettare su una parete, con l’aiuto di un raggio di sole o della luce artificiale di una lampadina, delle figure fatte con le mani. Se guardavi le mani, non avresti mai capito di che cosa si sarebbe trattato, ma guardando le ombre che si formavano sulla parete, appariva ora una farfalla, ora un’elefante ora altre immagini. Le chiamavamo col loro nome: ombre cinesi, ma eravamo inconsapevoli del fatto che le ombre cinesi fossero in realtà una vera e propria forma d’arte teatrale, per lo più ambulante, sviluppatasi in Cina fino da un centinaio di anni prima della nascita di Cristo.

Negli spettacoli delle ombre cinesi, tuttora in voga sia in Cina sia in altri paesi del Sud Est Asiatico, le figure non si vedono direttamente ma appaiono, in genere dietro un telo bianco, solo le loro ombre. Scriveva Tiziano Terzani ne “La Porta Proibita”: “In Cina, quel che si vede spesso non è che l’ombra di una cosa, e ciò che pare la realtà spesso è solo teatro”. Personalmente non mi sento di confermare le ultime parole di Terzani, sono stato troppo poco tempo in quel paese per potere dare un giudizio così netto sulla teatralità di quel popolo, tuttavia, proprio perché due sole settimane trascorse in una parte di un’unica provincia più estesa della Francia, non possono dare un quadro completo e realistico di un paese così esteso e vario, quello che posso riportare sono solo delle impressioni. Delle ombre più o meno definite di una realtà molto più complessa e difficile da capire, rispetto a quanto ho potuto vedere. Solo ombre quindi, e forse neanche tanto nitide, ombre cinesi appunto, come quando giocavo da bambino ma questa volta in un nuovo gioco da adulti, altrettanto istruttivo, che è il viaggio.

Arrivato a Kunming, prima di godere del mio meritato riposo, il mio primo pensiero è stato quello di organizzarmi il viaggio in treno per l’indomani alla volta di Chengdu nella provincia di Sichuan. Il problema era quello di spiegarmi con il gestore della pensione e la soluzione è arrivata grazie alla tecnologia. Inserita nel telefonino la carta SIM cinese, che fino a quel momento, mi era stato detto, non avrebbe dovuto avere campo, con l’aiuto del traduttore online, sono finalmente riuscito a comunicare. Il treno sarebbe partito intorno alle 9 della mattina seguente e in “appena” 22 ore mi avrebbe portato alla mi destinazione finale.

E così anche l’arte di viaggiare zaino in spalla, entra nell’era della tecnologia. Il moderno back packer prosegue viaggiando con mezzi di fortuna, senza un’organizzazione ben definita alle spalle, dormendo in ostelli o in pensioni economiche, cercando di contenere le spese al massimo. Poi, però si orienta con le mappe di google, che hanno una precisione che si discosta di solo pochi metri dalla posizione reale, e comunica con i traduttori simultanei, che hanno pure l’audio nel caso in cui la lettura dovesse risultare difficoltosa. Se poi il suddetto viaggiatore gestisce anche un sito internet dove pubblicherà i suoi diari di viaggio, oramai definiti “blogs”, la tecnologia torna in suo aiuto: basta con ingombranti blocchi per appunti su cui scrivere centinaia di parole, c’è l’applicazione microfono che consente di registrare le proprie impressioni al momento, per trascriverle poi con calma durante una pausa e pubblicarle, volendo anche in diretta, con l’aiuto di un semplice “tablet”.

Si potrebbe obbiettare che in questa maniera il viaggio perda un po’ del suo romanticismo, di quella sua essenza poetica fatta anche di quel senso di ignoto che spesso si prova quando si entra in un mondo diverso e sconosciuto, ma in realtà, alla fine, non è proprio così: con il mondo che cambia e si sviluppa con una rapidità quasi esasperante, il progresso aiuta a migliorare anche la qualità del viaggio più spartano, facilitando la comunicazione con la gente, accrescendo i mezzi destinati all’orientamento ed aumentando anche le possibilità di contatto con il resto del mondo.

I viaggiatori di ogni epoca, in fondo, si aiutavano con quanto di meglio la tecnologia contemporanea offriva: fosse una bussola o un sestante, quando non era l’osservazione delle stelle, per orientarsi negli spostamenti; fosse quella maniera di comunicare che prendeva il via dal “Io Tarzan, tu Jane” seguita poi da una serie di gesti che simulavano amicizia, pace, fame, sonno, per stabilire una prima relazione con gli abitanti del luogo; fosse la spedizione di lettere attraverso servizi postali più o meno rapidi per inviare articoli di giornali o semplicemente notizie ai propri familiari.

Quello che la modernità ancora non può cambiare, e che per me rimane l’essenza del viaggio stesso, è il contatto con la gente, l’ammirare monumenti, costruzioni, opere d’arte che ti raccontano, se hai occhi per vedere e orecchie per intendere, storie di un presente e di un passato di civiltà che, a dispetto dell’uomo e dei suoi progressi, parlando una lingua antica come il mondo, comunicano stati d’animo e trasmettono emozioni. Nessuna immagine vista su un computer potrà mai farti provare la stessa sensazione di trovarsi di persona in un villaggio tibetano o davanti a dei cuccioli di panda appena nati che si muovono goffamente l’uno verso l’altro.

L’osservazione dei comportamenti e delle abitudini della gente di un posto, sia pure suscettibili di fraintendimento se colti nell’ambito di un periodo troppo breve da consentirti di capirle fino in fondo, regalano immagini legate anche al proprio senso di immaginazione, frammenti di vita locale, tasselli di un mosaico che, se riesci a completarlo ti parlano di un popolo, vite da ascoltare o solo da immaginare: quell’anziano signore che cammina con lo sguardo fiero e il portamento eretto avrà partecipato alla Rivoluzione Culturale? Avrà sventolato nelle piazze il suo Libretto Rosso come, all’epoca, tanti altri suoi coetanei? Non lo saprò mai, naturalmente, ma con la fantasia posso disegnargli addosso una storia che lui forse non ha mai vissuto, o forse si, ma che a me piace attribuirgli. Una storia fatta di speranze forse realizzate o forse deluse, di episodi personali che si intrecciano con la storia del suo paese, di momenti di gloria e di tristezza, di luci e di ombre. Ombre nascoste, rappresentazioni di una realtà velata, filtrata attraverso uno schermo bianco e proiettata da un fascio di luce: ombre cinesi.

Alla stazione di Kunming, ho preso un biglietto senza capire che tipo di posti avrei avuto e mi sono ritrovato su un vagone abbastanza affollato di gente e bagagli con sedili rigidi. Una specie di terza classe, direi, ma anche questa molto pulita e bene organizzata. Ogni vagone ha un suo responsabile, che prima della partenza staziona fuori dalla porta del treno per dare le indicazioni e per controllare che tutto proceda regolarmente, ed é proprio uno di questi che mi suggerisce di spostarmi in una cuccetta. In qualche modo mi fa capire che appena il treno sarebbe partito avrei potuto cambiare di posto così, dopo, avere pagato una modesta differenza ed avere ricevuto in cambio un regolare scontrino emesso da una macchinetta portatile, mi ritrovo seduto su una cuccetta in uno scompartimento di sei posti letto. Come pure nel pullman, anche in treno le cuccette sono fisse, non si trasformano in sedili durante le ore diurne, ma naturalmente il treno offre spazi maggiori e la possibilità di muoversi di tanto in tanto per sgranchirsi un po’ le gambe. Quello che colpisce una volta di più sono l’organizzazione e la pulizia: ogni vagone ha il suo bollitore dell’acqua per potere preparare l’immancabile tè; con una certa frequenza, personale in uniforme passa per pulire i corridoi dei vagoni e, non di rado, ho notato che anche i responsabili del vagone, contribuivano a mantenere pulito lo spazio di loro competenza.

Di tanto in tanto passa qualche venditore di generi alimentari molto locali, che fin dal primo momento ho giudicato, forse a torto, improponibili al mio palato, con il suo carrello pieno di riso o di altri cibi immersi in salse dai colori molto attraenti ma dagli odori particolarmente forti. La mia alternativa ad una dieta forzata viene da un carretto di sola frutta che passa innumerevoli volte nel corso del viaggio, e che ogni volta accolgo con un senso di profonda gratitudine, tanto più che, dopo avergli chiesto, sempre con l’ausilio del traduttore, se fosse stato possibile avere una bottiglia d’acqua, al passaggio seguente, si ripresenta con l’agognata bottiglia mostrando un’aria soddisfatta.

Tra arance, banane e uva, mangiucchiate qua e là nel corso del viaggio, placo la fame. Violento con del tè il mio italico bisogno di caffè e mi posso dedicare finalmente a godermi il panorama e ad osservare i miei occasionali compagni di viaggio.

Se mi fossi aspettato qualcosa di caratteristico o di particolare da parte degli altri viaggiatori, sarei rimasto profondamente deluso. Al di là di qualche sorriso di simpatia o di qualche frase di circostanza in cinese che, tanto per cambiare, non capisco, si fanno beatamente i fatti propri: chi sta seduto sui sedili ribaltabili del corridoio sorseggiando il suo té, chi con un tablet e chi, semplicemente guardando distrattamente fuori dal finestrino con l’aria quasi assente. Pazientemente si lasciano scorrere addosso il tempo che passa con lentezza, indifferenti a tutto quello che a me, invece, sembra essere un’enorme attrazione. Ora mangiano, ora si sdraiano sulla cuccetta ora raggiungono lo spazio per i fumatori. Una certa attività si nota solo da parte del personale ferroviario, sempre in movimento, sempre attenti. Quando il treno si ferma in qualche stazione, hanno già provveduto a bloccare una delle due entrate del vagone ed i bagni e, dopo avere scaricato sul marciapiede i sacchi della spazzatura collocati nei pressi dei lavabi, si piazzano sotto all’unica portiera aperta ad osservare, quasi con zelo, quanto avviene sotto i loro occhi. Tutti in uniforme, naturalmente, e tutti con il loro sguardo severo che in realtà sembra essere solo una maschera, dal momento che se poi gli chiedi qualche informazione, nonostante un tono di voce che sembra un ordine abbaiato, non nascondono una certa gentilezza e una certa professionalità. Talvolta un sorriso.

Volti impenetrabili, che trattengono i loro stati d’animo, non lasciando trapelare in alcun modo le loro emozioni o la loro impazienza di arrivare a destinazione. Visi decorati da occhi a mandorla che nascondono le loro realtà dietro al telo bianco della discrezione: Ombre Cinesi.

Quello che invece lascia trasparire tutta la sua varietà e tutta la propria bellezza, senza il bisogno di nascondere le sensazioni che può trasmettere, è il paesaggio che mi passa sotto gli occhi. È la Cina, è lo Yunnan che kilometro dopo kilometro diventa Sichuan. Un paesaggio maestoso, fatto di monti e di colline, di vallate e di fiumi, città e villaggi di campagna che, fuggendo in direzione opposta a quella del treno, si abbandonano al mio sguardo rapido e forse indiscreto.

Città che forse non sono indicate neanche sulle carte geografiche attraversate da strade larghe e poco trafficate con grattacieli e palazzi moderni che fanno da sfondo alle vecchie, tradizionali, case basse; campagne coltivate ordinatamente, con le loro sfumature di verde e di giallo, che formano macchie di colori e disegni come dipinti, sulle quali stanno chinati i contadini assorti nel loro lavoro, distratti solamente dal passaggio del treno verso il quale volgono uno sguardo incuriosito; zone industriali e minerarie per lo più carbonifere con le loro ciminiere che qua e là sfrecciano il cielo azzurro con pennacchi di fumo nero; casolari di campagna in mattoni, più o meno diroccati, che in alcuni tratti sembrano ricordare i paesaggi della nostra pianura Padana, dove spesso sui tetti si vedono pannocchie, grano e peperoncini ad essiccare o sbirciando dentro all’apertura di qualche parete, si intravedono fascine di legno che torneranno probabilmente utili per l’inverno.

Poi ci sono le stazioni, con la loro vivacità, con la gente che sale e che scende con i venditori di prodotti locali.

Prendo in prestito, ancora una volta, le parole di Tiziano Terzani da “Un indovino mi disse”:

Il viaggiare in treno (…) su grandi distanze, m’ha ridato il senso della vastità del mondo e soprattutto m’ha fatto riscoprire un’umanità, quella dei più, quella di cui uno, a forza di volare, dimentica quasi l’esistenza: l’umanità che si sposta carica di pacchi e di bambini, quella cui gli aerei e tutto il resto passano in ogni senso sopra la testa. (…) Il treno, con i suoi agi di tempo e i suoi disagi di spazio, rimette addosso la disusata curiosità per i particolari, affina l’attenzione per quel che si ha attorno, per quel che scorre fuori del finestrino.”

Così, di ora in ora, di paesaggio in paesaggio, arriva il tramonto che dipinge sul mondo i suoi colori pastello, le ombre si allungano e la notte inesorabilmente cala il suo velo scuro sullo spettacolo della varietà della natura cinese. Oramai non c’è più niente da vedere. Qualche viaggiatore consuma ancora un piatto di vermicelli di soia in brodo, qualche altro si concede ancora un sorso di tè. Io, in mancanza di un caffè, fumo una sigaretta cinese, acquistata ancora quando ero al confine, per andare poi a terminare la mia giornata sulla brandina. Il sonno non tarda a venire, aiutandomi a passare le ultime ore di treno e quando mi sveglio, le primissime luci dell’alba, miste alle ultime luci della città, mi informano che il treno sta arrivando a Chengdu.

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Ombre Cinesi
Episode 29
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