In pulman dal confine a Kunming

Seduto su un marciapiede in attesa che passi qualche pullman per Kunming, immerso nei miei pensieri su come proseguire il viaggio, mi soffermo ad osservare la costruzione che ospita la dogana. Davanti a se ha la bandiera rossa con le cinque stelle che sventola, quasi superba, sullo sfondo del cielo azzurro. Anche in un remoto avamposto dell’Impero, in un posto di confine semi-dimenticato se non dai camion che trasportano merci di vario tipo, e dai turisti per lo più cinesi che raggiungono il Laos, la Cina sembra volere mostrare fin da subito l’immagine migliore di sé, e non c’è dubbio che ci riesca. Al di là dell’efficienza dimostrata dai doganieri e della pulizia che regnava nei locali, la struttura in sé si presenta maestosa e moderna, degno ingresso di un paese consapevole della sua potenza che ha ancora grosse potenzialità da esprimere.

Osservo lo scorrere dei veicoli che passano il controllo e l’impressione è che tutto si svolga con un certo ordine, una certa regolarità e in maniera relativamente rapida. Tutto sotto gli occhi attenti e neanche tanto severi di un militare in uniforme verde – più chiara la camicia adornata da vistose spalline rosse, più scuri i pantaloni – che verifica i documenti di ogni mezzo e la sua targa, effettua un veloce controllo e poi da il via libera. Sulla corsia opposta, in uscita, un camion rosso guidato da una donna con i capelli raccolti in una coda aspetta pazientemente il suo turno mentre un pullman turistico scarica una ventina di persone che si affrettano a raggiungere il controllo passaporti.

Muovendosi dall’altro lato della strada, una donna con una giacca a vento nera e una borsa a tracolla mi si avvicina e mi fa capire che vuole cambiare la mia valuta. Sono un po’ titubante, non so se fidarmi, e nel mentre si avvicina altra gente, anche loro con tascapani pieni di soldi. Li avevo notati già sull’altro lato della carreggiata che avvicinavano le persone in uscita, ed avevo visto che questi si fidavano e cambiavano senza timore, semplicemente trattando un po il tasso di cambio, quindi mi rilasso e faccio altrettanto: contratto, riesco a scendere di qualche punto ed alla fine cambio baht tailandesi ad un tasso di cinque punto tre. Risulterà essere il cambio migliore di tutto il soggiorno.

Instancabili, gli ‘improvvisati bancari” si avvicinano ad altre persone e continuano il loro ‘lavoro’: comprano yuan da chi esce in cambio di dollari, euro, baht o keep laotiani e li rivendono a chi entra in cambio delle stesse monete. È la prima applicazione pratica che incontro del dogma di Deng Xiao Ping, “Arricchirsi è glorioso”, e sono quasi certo che alla fine della giornata, muovendosi con quei ritmi fra arrivi e partenze, i simpatici bancari torneranno alle loro case carichi di “gloria’.

Certo, il lavoro non è sempre privo di inconvenienti: improvvisamente, con una calma tutta cinese, i “cambia valute” si allontanano con aria indifferente, chi a piedi chi a bordo di silenziosi motorini. Basta alzare gli occhi per capire la ragione dell’esodo: un pattuglia formata da tre militari in fila indiana con a fianco un graduato si sta avvicinando al passo, con aria marziale. Mi passano vicino senza degnarmi di uno sguardo, raggiungono il gruppo dei “fuggiaschi” che si era fermato a qualche decina di metri, il graduato parlotta un po’, forse esterna un fervorino poco convinto, dietro front e rientro alla base dopo avere probabilmente chiuso un occhio, forse tutti e due, ed aver dato prova di una certa tolleranza e comprensione.

È superfluo aggiungere che non appena la pattuglia scompare dalla vista, i “cambia valute”, attirati da un pullman in arrivo, tornano alla carica e con loro, stavolta, vado alla carica anche io: sul pullman, in caratteri occidentali, è scritto “Vientiane – Kunming” e su quella scritta intravedo la concreta possibilità di muovermi dal confine.

Se con i cambia valute il problema della lingua si è risolto con gran facilità grazie all’aiuto di una banale calcolatrice, la comunicazione con lo staff del pullman evidenzia invece le prime serie difficoltà che incontro in questo viaggio: “C’è un posto libero?”, “A che ora si parte?”, “Quanto costa?”, “A che ora si arriva a Kunming?”. Di fronte a me, facce neutre che mi rispondono con suoni che proprio non riesco ad interpretare, magari avranno anche capito le mie domande e staranno anche rispondendomi in maniera appropriata, tanto più che non nascondono una certa disponibilità, ma io proprio non li capisco. Se non mi prende una crisi di depressione è solo perché non è la prima volta che viaggio e in generale me la sono sempre cavata benino, specialmente perché in tutti i paesi dove sono stato, si parlava un inglese più o meno comprensibile, ma pur sempre inglese. Qui no. Non si parla proprio e forse forse è anche logico: una nazione di quasi un miliardo e mezzo di persone, circa il 20% della popolazione mondiale, avrà pure il diritto che a casa loro si parli la loro lingua.

La soluzione si sblocca con l’aiuto di due giovani studenti cinesi i quali, studiando in Laos, capiscono un minimo d’inglese e un po’ di thailandese, così scopro che il mezzo partirà in breve tempo, che arriverà in circa dodici ore e sopratutto, con mia grande gioia, che ha disponibilità di posti a sedere, o meglio di posti sdraiati, perché si tratta di un cosiddetto sleeping bus dotato solo di cuccette. La fortuna, che sembra aver preso fin da subito la piega giusta, non smette ancora di aiutarmi: in fondo al pullman, sul piano superiore, ci sono la bellezza di cinque posti letto liberi e, a quanto pare, a mia disposizione.

Partiamo e pochi minuti dopo ecco la prima sosta: ci fermiamo nel centro di Mohan per una sosta pranzo di circa mezz’ora, e ne approfitto quindi per un rapido pasto e per visitare in fretta la cittadina. Anche questa appare pulita e curata; le case, per la maggior parte a due o tre piani, rispecchiano in pieno lo stile cinese al quale sono abituato: l’attività al piano terra e le abitazioni ai piani superiori. Negozi, pensioni, ristoranti con i cibi esposti all’esterno, tavoli normali all’interno del locale e qualche tavolo basso sul marciapiede dove gruppetti di tre o quattro persone dividono il pasto accompagnato dal riso e dall’immancabile tè. In una traversa della via principale, alcune persone si cimentano su due tavoli da biliardo sistemati tranquillamente ai bordi della strada. Mohan si presenta così: una cittadina di confine tranquilla, senza pretese, con le sue attività, la sua pigrizia, i suoi ritmi blandi.

La mezz’ora passa, ma di partire ancora non se ne parla. La maggior parte dei passeggeri sono all’interno del mezzo comodamente sdraiati, l’autista è tranquillamente seduto fuori a chiacchierare e a fumare con qualche altro viaggiatore. Gentilmente uno di loro mi offre una sigaretta, me la accende e mi dice qualche cosa. Annuisco sorridendo, del resto non saprei che cosa rispondere, e mi preparo pazientemente a ingannare l’attesa.

I due studenti che già erano accorsi in mio aiuto qualche ora prima, mi spiegano che mancano alcune persone e che quindi bisogna aspettarle. Intavoliamo una conversazione stentata con gli spiccioli di vocabolario che abbiamo in comune, e mi raccontano che sono originari di una città dello Yunnan nella quale non avevano potuto proseguire gli studi universitari, e così sono andati a Vientiane dove hanno intrapreso gli studi di legge. Resto perplesso: studiano diritto cinese in Laos? No, diritto laotiano, e credo che facciano di necessità virtù quando mi dicono che in Laos si trovano bene e che al termine dei loro studi intendono rimanere a vivere a Vientiane. Non stento a crederci, che cosa potrebbero mai fare in Cina due avvocati che hanno studiato le leggi del Laos?

Sono molto amichevoli e desiderosi di confrontarsi con un europeo; uno di loro mi aiuta nell’acquisto di una carta SIM cinese e, essendo necessario mostrare un documento, non esita a presentare la sua carta di identità per garantirmi. Cominciano a piacermi questi cinesi, e nonostante le prime difficoltà, sia pure non insormontabili con la lingua, mi convinco di avere iniziato un viaggio che non mi deluderà.

Dopo un falso allarme e più di un’ora di ritardo, le persone mancanti arrivano accolte da una totale indifferenza e da nessun segno di impazienza, e finalmente si parte. Mi stendo in diagonale nel mio ampio spazio, assumendo una posizione che è una via di mezzo fra quella di un antico romano semisdraiato su un triclinium e quella della Paolina Borghese di Canova e mi appresto a godermi il panorama, finché sonno non ci separi.

Come i fotogrammi delle vecchie pellicole, la Cina scorre veloce ai miei lati attraverso i finestrini, una varietà di paesaggi montani e collinari, piantagioni di banane, di caucciù ed altro, città e villaggi fatti di case di campagna alternate a grossi edifici-dormitorio fanno ala al mio passaggio. Un cartello lungo il percorso mi informa che stiamo passando ai lati della più grande foresta tropicale della Cina, il ché mi da la sensazione di ritrovarmi in un ambiente familiare, come pure alcune delle costruzioni che si incontrano lungo il percorso, che con i tetti in stile inequivocabilmente Thai mi ricordano che la popolazione tailandese è originaria proprio dello Yunnan, facendomi percorrere una specie di viaggio nella memoria del paese che mi ospita da vent’anni.

Il viaggio prosegue tranquillo, con qualche sosta per mangiare o per i servizi, fino a circa metà strada quando, durante un mio momento di “profonda concentrazione”, il pullman si ferma, le porte si aprono e vengo svegliato da un secco abbaiare di ordini nella solita lingua sconosciuta. A bordo sono salite due graziose poliziotte in tenuta mimetica che, all’apparenza un po rudemente, chiedono che vengano mostrati i documenti. Di cuccetta in cuccetta si avvicinano a me, unico europeo, e noto che, al vedermi, la loro espressione arcigna lascia il posto ad una più bonaria. Gentilmente, in un inglese molto approssimativo che strappa un sorriso anche al cipiglio militaresco della sua collega, una delle due mi chiede il passaporto. Aiutandosi poi a vicenda, formulano in inglese un paio di domande di circostanza sulla mia destinazione, poi, soddisfatte forse dalla loro performance linguistica, si lasciano andare entrambe ad un sorriso amichevole, salutano e scendono.

Il viaggio prosegue senza ulteriori distrazioni, la sera e poi la notte calano inesorabili sul paesaggio. Un’altra sosta per un controllo al sistema di raffreddamento del pullman finché, intorno a mezzanotte, addirittura in anticipo sull’orario previsto, arrivo alla stazione dei pullman di Kunming. Fra le varie persone che mi circondano per propormi un posto letto ne scelgo una a caso e finalmente, dopo una decina di minuti, attraverso le vie semi-deserte della periferia a bordo di un vecchio minibus, mi ritrovo in una pensione di poche camere, pulita il giusto, dove ad attendermi, insieme ad un assonnato impiegato, troneggia un poster del Presidente Mao.

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