Il tatuaggio come simbolo identitario

Le mani ci dicono molto delle persone che incontriamo. In Occidente ci si saluta con una stretta di mano, e Giorgio Gaber ci scrisse addirittura una canzone, “Le mani”, appunto: “un incontro civile fra gente educata che si alza in piedi e che si saluta, un incontro un po’ anonimo reso più umano da una cordiale stretta di mano”; prosegue poi “cantando” diversi tipi di mano, con la sottile ironia che ha da sempre contraddistinto l’artista.

Già, da noi fin dal primo incontro, fin dalla prima stretta di mano, potremmo farci un’idea delle persone che ci troviamo di fronte di volta in volta e, proprio da quella stretta di mano iniziale, parte un giudizio che diventa subito una sentenza, spesso senza appello, sul personaggio incontrato.

Tatuatore nell’esercizio delle proprie funzioni 4

Poi esci dai confini nazionali, ti trovi a girovagare in quella che è la terza isola più grande del mondo e, anche lì, ti accorgi che le mani possono dirti qualcosa su un eventuale interlocutore. Se questi, ad esempio, è un Iban, discendente della popolazione Dayak e, guardandogli il dorso delle mani, noti dei tatuaggi, beh… va bene che i tempi sono cambiati, ma la decisione più saggia da prendere è andarsene, e anche velocemente, poiché, secondo la tradizione, quel tatuaggio chiamato “tengulun” significa che il proprietario di quella mano potrebbe aver preso parte a una spedizione di caccia alle teste di qualche appartenente ad una tribù nemica e potrebbe aver fatto ritorno a casa portandosi appresso, come “souvenir”, almeno una capoccia staccata dalla spalla di qualche malcapitato.

Malcapitato e sfortunato o, per lo meno, molto imprevidente, dal momento che probabilmente sarebbe bastato che si tatuasse sulla gola un “pantang rekung”, il tatuaggio che, come tutti sappiamo, rafforza la pelle rendendola più resistente all’azione del “Parang ilang”, la spada locale, fastidiosamente indiscreta, che si appresta a curiosare dietro al tuo “pomo di Adamo”. Il “Pantang Rekung” è infatti il secondo tatuaggio che i ragazzi Iban ricevono intorno al periodo della pubertà.

Tatuatore nell’esercizio delle proprie funzioni

Oggi giorno da noi il tatuaggio può essere considerato una moda, una decorazione del corpo, il modo di rendere eterno un ricordo o una situazione, al limite un gesto di ribellione. Francamente, però, non mi sembra un elemento che rispecchi in maniera particolare la nostra cultura, tant’è vero che, in primo luogo, il tatuaggio è una pratica relativamente recente e, in secondo, quasi sempre andiamo ad imprimere sulla nostra pelle disegni che fanno parte di altre culture come quella maori o quella giapponese.

Lungi da me, naturalmente, esprimere giudizi su chiunque si faccia incidere la pelle con un qualsiasi tipo di disegno: ciascuno è libero, col proprio corpo, di fare quello che vuole; inoltre, qui non intendo parlare di una moda occidentale più o meno recente, ma di gente che ha fatto del tatuaggio una specie di diario di bordo della sua esistenza, imprimendosi sul corpo una testimonianza indelebile di quello che è chiamato il “bejalai” e cioè il cammino, il vagabondaggio, il percorso della propria vita.

Cose che capitano nella terza isola più grande del mondo.

Ci troviamo nella parte malese del Borneo, più precisamente nel Sarawak, a vagabondare tra il Rainforest World Music Festival di Kuching e il Borneo Jazz di Miri. Ed è proprio a Miri, nel quadro di quest’ultima manifestazione, che fra gli spazi dedicati ai vari aspetti della vita locale inciampiamo nell’Ukir Anyam, Tattoo & Beauty Studio.

I ragazzi del nell’Ukir Anyam, Tattoo & Beauty Studio

Gente del posto, gente moderna, gente simpatica, con cui è piacevole scambiare qualche battuta. Qualcuno, come Sylvester, sfoggia i dreadlocks, quasi tutti hanno dei piercing e tutti, ma proprio tutti, hanno il corpo ricoperto di tatuaggi. Dopo poche parole, ci rendiamo conto che i loro tatuaggi non sono il prodotto di un trend, di una moda magari passeggera, bensì precisi simboli figli di una cultura antica a cui non intendono rinunciare per nessuna ragione. Per loro farsi un tatuaggio tradizionale è un modo di tenere viva l’arte e la cultura Iban, mi racconterà poi il mio amico Seth anche se, magari, non si crede più nel significato magico e rituale del tatuaggio.

Di certo non sono né magiche né rituali le attuali attrezzature usate per tatuare: macchinette, sormontate da un serbatoio di inchiostro, una via di mezzo fra una penna del futuro e una specie di stampante, i cui aghi entrano nella pelle ad una velocità di circa cinquanta penetrazioni al secondo, raggiungendo uno strato di pelle non soggetto a continui ricambi di cellule, per evitare che queste, rigenerandosi, possano deteriorare il tatuaggio in breve tempo.

All’opera

Una volta, invece, quando i Dayaki vestivano di perizomi e si ornavano di piume e perline nella quotidianità e non solo per partecipare ai festival, quando il “Parang ilang” veniva utilizzato per tagliare teste e non come un oggetto da mettere in vetrina per la vendita, quando i corpi erano coperti da tatuaggi che erano dettati da una forma di spiritualità o avevano lo scopo di raccontare momenti fondamentali della vita di colui che li sfoggiava, anche le tecniche che venivano usate erano più lente e dolorose e gli attrezzi utilizzati erano più primitivi. I tatuaggi erano fatti a mano, con due bastoncini di legno, uno dotato di una o più spine di bambù ad una estremità, chiamato “kayok tatok”, l’altro usato per colpire il primo bastoncino in modo da spingere l’ago nella carne. Questi tatuaggi venivano fatti da artisti che, oltre ad avere una certa abilità con le mani e saper dosare la propria forza in maniera adeguata, consultavano anche gli spiriti perché rivelassero loro il disegno da fare.

Moderna macchina per tatuaggi

Il primo tatuaggio correva parallelo al già nominato bejalai, in modo che questo fosse inciso sulla propria pelle, e veniva fatto quando si era ritenuti maturi: il passaggio all’età adulta veniva marcato con il “bungai terung”, rappresentato da una doppia spirale che si sviluppa a partire dal centro di una macchia nera assumendo la sagoma di un fiore, il così detto fiore di melanzana, per proseguire, di esperienza in esperienza, di bejalai in bejalai e di tatuaggio in tatuaggio;

Mi spiega Seth che si credeva che i tatuaggi Iban potessero proteggere dagli spiriti maligni e dal male, ma si pensava anche che fossero un modo “per ricordare agli Dei della nostra esistenza”, e per permettere loro “di vederci dopo morti”. Per alcune tribù come gli Orang Ulu, i tatuaggi rappresentano un segno distintivo della classe di appartenenza, distinguendo i nobili dai membri di ceto inferiore.

Significati diversi per tribù diverse, significati diversi per disegni diversi. E poiché gli Iban credono che ogni essere vivente abbia un’anima, uno spirito, i loro tatuaggi simboleggiano tutti gli esseri animati.

Ma sono cose di altri tempi: Seth ammette che i suoi tatuaggi sono solo un modo per ricordare gli antenati, raccontare momenti della sua storia e mantenere viva questa forma d’arte. “Non credo nel significato magico e spirituale, ma il tatuaggio resta una parte della mia identità, di quello che sono”.

Versione inglese su Asian Itinerary

La pagina Face Book di Ukir Anyam

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