Angkor Wat

Mi sono sempre domandato cosa possa avere provato Henri Mouhot, l’esploratore e naturalista francese che ha vagabondato per anni nel sud est asiatico quando, spaccandosi il filo della schiena per aprirsi la strada fra rami e liane nelle giungle cambogiane, un bel giorno, come nelle favole, si è trovato di fronte il monumentale complesso dell’Angkor Wat.

Ho iniziato un discorso volutamente pieno di inesattezze: in primo luogo escluderei che Monsieur Mouhot si aprisse da solo la strada nell’intrigo di rami e radici di una foresta che tende con una certa rapidità a riconquistare gli spazi che l’uomo si ostina a rubargli.

Mostra della pietra calcarea rosa utilizzata per la costruzione del tempio di Banteay Srei

Anche se a guardarne il volto nelle foto che ci sono state tramandate non mi sembrerebbe poi un’assurdità, l’aria volitiva di quello che non si sarebbe fermato davanti a quattro “fili d’erba” ce l’aveva, ritengo, tuttavia, che fosse molto più probabile che avesse un certo numero di persone, di indigeni, che versando lacrime, sudore e sangue, avessero aperto quei varchi nella vegetazione tropicale che lo avrebbero portato a quella che senza dubbio è stata la sua impresa più importante.

Ho scritto impresa e non scoperta, e qui vengo alla seconda inesattezza del mio discorso iniziale, perché per la verità Monsieur Mouhot non ha scoperto proprio niente, o quasi, visto che gli si attribuisce la scoperta di una conchiglia trovata sulle rive di un fiume cambogiano che prenderà il suo nome .

Della città di Angkor e del suo complesso di templi, piscine e “faccioni sorridenti”, prima del nostro naturalista francese ne avevano già scritto altri, fra qui l’immancabile prete, un missionario, francese anch’esso, che aveva visitato qualche anno prima il sito archeologico.

Se in questa storia Monsieur Mouhot ha un merito, non è, per la verità, nella scoperta ma, al limite nella diffusione. I suoi diari di viaggio, “Voyage dans les royaumes de Siam, de Cambodge, de Laos” infatti, hanno saputo creare un interesse intorno ad Angkor, sia grazie alle suggestioni create dalle sue descrizioni, sia grazie alle sue dettagliate illustrazioni, di cui peraltro non ha riscosso neanche il meritato successo dato che i diari sono stati pubblicati dopo la sua morte.

Il tempio di Bayon

L’ultima inesattezza è frutto invece di quella sorta di provincialismo tutto italico che ci porta a vedere sempre la realtà in una maniera distorta, fatta su misura sulla base della nostra immaginazione. Come si potrebbe, infatti pensare che, mentre il naturalista francese raccoglieva larve, o inseguiva qualche farfalla col suo retino, spostando un ramo si sarebbe trovato di fronte, che so, al Bayon con una delle sue facce che lo osservava con aria severa. Come minimo gli sarebbe venuto un infarto e la sua opera di divulgazione al mondo occidentale non avrebbe mai avuto seguito.

Sto parlando di un argomento, che in realtà mi sta a cuore, forse con troppa leggerezza e vorrei sgombrare il campo da ogni equivoco: Henri Mouhot merita rispetto, ha perso la vita a soli 35 anni colpito da quella malaria che ha ucciso un numero enorme di viaggiatori e il sito archeologico dell’Angkor è uno dei posti più belli e suggestivi che abbia visto qui in Asia.

Una Vespa Piaggio al confine Thailandia-Cambogia

Ho visitato Siem Reap, la località dove si trova Angkor Wat quattro volte di cui una volta a bordo del mio vespone 150 cc di colore arancione che, dopo una serie di strade sterrate e alquanto malmesse, ha pensato bene di perdere la marmitta senza che io me ne accorgessi. Beh, per la verità il rumore assordante lasciava spazio a pochi dubbi e, quando un’amico che procedeva invece in macchina, mi è venuto incontro alla tappa seguente con la mia marmitta in mano dicendomi con fare ironico: “Credo che tu abbia perso qualcosa” anche l’ultimo dubbio è sparito.

Il complesso dell’Angkor è a dir poco mozzafiato: i giganteschi volti di pietra sorridenti del Bayon, le costruzioni piramidali con scalini irregolari su cui salire ai limiti dell’arrampicata, i basso rilievi delle Apsara” danzanti, tutte immagini che hanno convinto (e non credo ci sia voluto molto) i funzionari dell’UNESCO ad attribuire all’Angkor Wat il titolo di Patrimonio dell’umanità.

Immagini belle, incantevoli, alle quali si contrapponevano, almeno durante i miei primi due viaggi, le immagini della povertà nascosta dietro i volti sensa sorriso di bambini che chiedevano

Angkor Wat da lontano

l’elemosina, di orchestrine improvvisate lungo i viali formate da invalidi di guerra o, peggio ancora, da sopravvissuti di quel dramma collettivo rappresentato dall’infame genocidio perpetrato dai Khmer Rossi ai danni del loro stesso popolo, giustificando il clima di terrore dietro al proposito di voler creare la nuova, pura società contadina. Cicatrici difficili da rimarginare quando hai visto morire senza una vera ragione un terzo dei tuoi concittadini e, senza alcun dubbio, in quel terzo di popolazione, doveva per forza esserci un parente, un amico, un conoscente.

È per questo motivo che quando ho visitato per la prima volta Siem Reap, dopo avere attraversato una buona fetta di Cambogia e dopo avere fatto sosta a Phnom Penh, epicentro dell’orrore e della follia khmer, che ti accoglieva col suo sorriso triste e forse con la paura che ricominciare sarebbe stato impossibile, quando l’ho visitata per la prima volta, dicevo, non ho potuto fare a meno di sentire un profondo affetto per questa gente che fino ad allora non aveva fatto altro che soffrire.

Il tempo si sa, alla lunga lenisce le ferite e così è stato per la Cambogia che anche grazie al turismo ha cominciato a rifarsi una vita.

Certo, un posto come Angkor non può che attirare masse di persone curiose, talvolta ignoranti, spesso irrispettose ed è forse questo il prezzo che dovrà pagare la Cambogia per dimenticare il suo passato infelice. Ricominciare vendendo in cambio un pezzo della sua anima e della sua cultura.

Versione in inglese su Asian Itinerary

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Angkor Wat
Episode 21
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