“Acqua di monte – acqua di fonte
acqua piovana – acqua sovrana
acqua che odo – acqua che lodo
acqua che squilli – acqua che brilli
acqua che canti e piangi
acqua che ridi e muggi.
Tu sei la vita – e sempre fuggi”
(“Acqua” – Gabriele d’Annunzio)

Una visita a Luang Prabang, non può esaurirsi con l’aspetto spirituale, religioso e umano. Quando ti trovi in questa splendida e tranquilla cittadina, non puoi prescindere dall’aspetto naturale già evidenziato dalla cornice formata dai due fiumi che si incontrano e, con le loro acque, avvolgono in un abbraccio la parte più caratteristica del paese.
Acque che in qualche modo alimenta la foresta lì nei pressi, che offre rinfresco agli abitanti, come in quel remoto angolo di fiume dove siamo andati a cercare la tomba di Henry Mouhot, così difficile da raggiungere che abbiamo dovuto rinunciare, e abbiamo trovato sulle rive del fiume Nam Khan una serie di tendoni e gazebo, ognuna con una famigliola sotto, che trascorrevano il giorno festivo con i piedi a mollo, le pance in via di riempimento e le gole ampiamente bagnate. Un bel disegno di vita locale, completato dai bambini che si rincorrono spensierati, gettandosi nell’acqua, spruzzandosi e rincorrendosi. In una parola divertendosi.

Acque che scendono in cascate dal salto più o meno alto nell’area protetta di Kuang Si, e se la località indicata in precedenza, che sinceramente non so come si chiami, è decisamente un posto dedicato ai locali, le cascate di Kuang Si sono un posto per tutti, Lao e stranieri. Un posto in cui trovano tranquillità e protezione dal bracconaggio anche gli orsi asiatici, specie considerata in pericolo, presso il “Bear Rescue Centre, Free the Bears”.
Ma proviamo a mettere un po’ d’ordine nel mio disordine mentale.

Tanto le cascate di Kuang Si quanto il centro di raccolta degli orsi asiatici rappresentano una meta doverosa per i visitatori di Luang Prabang. Qualsiasi operatore turistico o agenzia di viaggio locale inserisce questa meta nell’ambito di un giro della città o della provincia. Distanti una trentina di chilometri ed un’ora circa di tragitto in macchina dal centro città, sono facilmente raggiungibili anche con un motorino preso in affitto. Del resto il traffico è molto più limitato e di conseguenza anche meno pericoloso di altre località dove ho avuto occasione di guidare.
Ero già stato, nel ormai lontano 2007, anche alle cascate e, in questo caso ho notato delle differenze organizzative che, se da una parte hanno reso l’area meno selvaggia rispetto alla mia prima volta, facendogli perdere il fascino dell’esplorazione, dall’altra, senza intaccare più di tanto l’ambiente, hanno reso il posto più facile da visitare mantenendone un buon livello di sostenibilità.

L’arrivo è in un centro di accoglienza situato qualche chilometro più in basso della zona protetta dove, dopo avere fatto i biglietti, vieni accompagnato con delle auto elettriche all’ingresso del parco vero e proprio. È da lì che parte una passeggiata gradevole e niente affatto impegnativa.
La fonte d’origine di Kuang Si è una sorgente che si trova a circa 45 minuti a monte della cascata principale, dove non sono andato, e scorrendo verso valle va ad arricchire il corso del fiume Nam Si, il cui scorrere viene sfruttato da diversi villaggi per soddisfare il loro fabbisogno idrico.
Secondo una leggenda locale, le cascate di Kuang Si si formarono quando un vecchio saggio portò alla luce le acque del Nam Si scavando in profondità nella terra. Le acque liberate del fiume giunsero a Kuang Si dove un bellissimo cervo dorato decise di fare la sua dimora sotto una grande roccia che sporgeva dalle cascate. Il suono dell’acqua che cadeva su questa roccia creava un’eco incantevole che attirava alla cascata persone provenienti fin dalla Cina lontana.
Ed è da questa leggenda che nasce il nome “Tat Kuang Si”: “Tat” significa, infatti, cascata, “Kuang” significa cervo e “Si” significa “scavare”.
La grande roccia che fu tetto della dimora del cervo, però, non si vede più perché è caduta nel dicembre 2001 in seguito a un piccolo terremoto.

Salendo, è un susseguirsi di pozze d’acqua, di piccoli salti e di cascatelle più alte; di gente che passeggia fermandosi a leggere di tanto in tanto le note esplicative che sono molto frequenti; gente che resta seduta, in una delle tante panche di legno, semplicemente a veder scorrere l’acqua, immaginando magari che con l’acqua scorressero via i pensieri ed i problemi della vita di ogni giorno.
L’acqua è limpida, pulita, richiama la crescita della vita, sia essa animale o vegetale. E se quest’ultima ti salta ovviamente agli occhi, mettendo in mostra, quasi con orgoglio, foglie enormi e multiformi che sembrano volerti ricordare il potere della natura, o abbagliandoti con quel verde brillante che sembra voler illuminare la foresta, la vita animale si nasconde timida, forse paurosa di incontrare quell’uomo che ha imparato atavicamente a temere.

Eppure la zona è bene abitata da diverse specie animali di ogni dimensione: mammiferi, uccelli e rettili, e, ma non credo che questo possa sorprendere nessuno, insetti che arrivano ad essere il 95% delle specie animali presenti fra il verde di Kuang Si, ai quali è dovuta la vita della foresta che, in loro assenza, finirebbe per morire perché non ci sarebbero più impollinatori o decompositori.
Il direttore del parco si chiama Bounmee ed è cresciuto nel villaggio di Ban Thapene. Si è preso cura con orgoglio di Tat Kuang Si per molti anni. “Quando ero un ragazzo – è scritto su uno dei tanti fogli informativi – guardavo gli alberi pensando che fossero cresciuti da molto tempo. Ora che ho più di 50 anni, sono ancora lì a guardarli e a rispettarli ancora. Come si può abbattere un albero che ha avuto una vita tanto lunga? È vero, probabilmente sarebbe diventato un buon mobile, ma so anche che una volta abbattuto un albero, non c’è più per sempre! Questi alberi dovrebbero continuare a crescere, in modo che la prossima generazione possa vedere tutti gli alberi più belli“.
Poi ci sono loro, gli orsi. Credevate me ne fossi dimenticato? E invece no! E come potrei?

Del resto sono arrivato in Asia nel 1993 proprio per dare il mio modesto contributo personale ad un centro di riabilitazione di gibboni di base a Phuket, in Thailandia. Sono quindi particolarmente sensibile a queste organizzazioni che hanno a cuore il futuro degli animali selvatici.
Free the Bears nacque nel 1993, bella coincidenza, quando Mary Hutton, una signora di Perth, dopo aver visto orribili filmati di orsi neri asiatici tenuti in gabbie a forma di bara impossibilitati a muoversi, con cateteri sporchi inseriti direttamente nella cistifellea per “mungerne” la bile da usare nelle medicine tradizionali (nota bene, medicine tradizionali) decise che non poteva restare indifferente di fronte a tanta inutile crudeltà.
Non sto a dilungarmi sulle vicende di Free the Bears in Asia, ne in Laos, dove aprì il centro di recupero di cui parlo nel 2003: potete andare a visitare direttamente il sito https://freethebears.org/
Qui mi basta ricordare che Free the Bears ha contribuito a salvare oltre 950 orsi delle specie più vulnerabili del mondo (orsi del sole, orsi della luna e bradipi) e fornisce assistenza continua a centinaia di orsi salvati nei santuari che gestiscono in tre paesi. Non c’è che dire: un bell’impegno.

Classificati come “Vulnerabili”, che significa che gli orsi neri asiatici – nome scientifico “Ursus Thibetanus” – rischiano di diventare minacciati, a meno ché le circostanze che minacciano la loro sopravvivenza non migliorino. Questi orsi hanno trovato in questi spazi creati da governi sensibili e dalla forza d’animo di un’anziana signora, ricovero e protezione dal bracconaggio, dalla deforestazione e dallo sviluppo umano, fattori che ne hanno causato una significativa diminuzione in tutta l’Asia.
E anche fermarsi un momento a vederli pigri e indolenti mentre si abbandonano, apparentemente stanchi di chissà che, sdraiati su piattaforme in bamboo, o vederli muoversi avanti e indietro negli spazi recintati sì, ma sufficientemente ampli da lasciargli una discreta libertà, conferisce un senso di contatto con una natura che non sempre apprezziamo e rispettiamo come dovremmo. Lei, la natura, invece è lì che ci guarda di nascosto, sospira e ci informa attraverso le sue meraviglie che spesso neanche notiamo che tutto quello di cui dovremmo sorprenderci ed estasiarci è nella sua stessa semplicità: un corso d’acqua che scorre oggi, domani, sempre, un orso con un segno bianco a “V” sul petto, migliaia di insetti invisibili ma spesso udibili che contribuiscono a rinnovare giorno dopo giorno la vita.
E noi forse dovremmo essere meno sordi a tanti richiami.
Ed alla fine rieccoci a Luang Prabang.
Sta giungendo la sera qui sul lungo Mekong dove stiamo spendendo l’ultima serata prima di ripartire. Mi cade l’occhio su due moto d’acqua che lasciano la loro scia sulla superficie dorata del fiume al tramonto, e davanti agli occhi mi passano come in un incubo le immagini di una Luang Prabang che potrebbe trasformarsi in una specie di Pattaya di fiume. Non ci voglio neanche pensare. Cancello in fretta dalla mia mente quel pensiero e con esso cerco di cancellare anche la visione di quei simboli di un capitalismo dannoso ed inutile.
Osservo la gente, i locali e anche i turisti che sembrano voler rispettare lo spirito che questa graziosa cittadina rappresenta. Guardo gli stupa e i templi e ripenso ai monaci a piedi nudi nell’alba. Sento, come se scorresse dentro di me, il flusso delle acque di Kuang Si che sembrano non voler spezzare quel senso di pace neanche col rumore delle loro cascate.
No, Luang Prabang resisterà.
Luang Prabang, con la sua grazia immutabile, non potrà cedere troppo in fretta alle tentazioni di una modernità che non può che essere dannosa per se stessa e per la sua gente. Resterà ancora a lungo sospesa nel tempo, in un limbo dove il profumo di incenso e l’eco di antichi canti buddisti continueranno a mescolarsi alla vita quotidiana dei suoi abitanti, in un equilibrio perfetto ed in una perfetta armonia tra passato e presente.