“Nell’antichità, le grotte furono utilizzate a fini religiosi quando la popolazione locale venerava i Phi, “gli spiriti della natura”. Si ritiene che queste grotte fossero associate a uno spirito del fiume.
È stato stabilito che il popolo Lao entrò per la prima volta nella valle del fiume a metà dell’VIII secolo, migrando verso sud dalla Cina meridionale. Solo successivamente, il buddismo si diffuse nell’area provenendo dall’Occidente.”
Da un testo informativo posto su un leggio di legno all’ingresso della prima grotta.
Sveglia presto anche oggi, ma i monaci non c’entrano. Oggi si parte per una crociera sul fiume Mekong per raggiungere le celebri grotte di Pak Ou, dimora stabile di oltre 4000 immagini di Buddha di varie dimensioni.
Pak Ou significa “Foce del fiume Ou” ed è in realtà un villaggetto di poche pretese che sorge sulla riva sinistra del fiume Ou, nel punto in cui quest’ultimo si congiunge col Mekong. Poca roba in realtà, a parte il tempio locale, che è incaricato fra l’altro della manutenzione delle grotte, ed un ristorantino che guarda al fiume, dove ho avuto occasione di mangiare, bene, in un’altra recente occasione.
Però ci sono le due grotte, la Tham Ting (grotta inferiore) e la Tham Theung (grotta superiore) che danno al paesino la sua notorietà e quel tanto di vita e di guadagno portato dai turisti che raggiungono Luang Prabang, discendendo in barca uno dei due fiumi.
Noi ci siamo arrivati da sud, da Luang Prabang, con una barca locale che ha risalito il Mekong contro corrente, come il noto barcaiolo romano, per una venticinquina di chilometri e circa 2 ore di navigazione.
Non si può negare che la navigazione sarebbe anche abbastanza monotona, fatta di paesaggi molto simili fra loro e dello scorrere del fiume col suo colore giallo, interrotto qua e là da sassi che emergono e da piccoli vortici e qualche rapida. Tuttavia ci pensano i momenti di quotidianità locali ad offrire spunti di interesse: le sponde del fiume che dal nostro punto di vista salgono verso l’alto per dare ai villaggi protezione dalle piene, e che sono raggiungibili da lunghe scalinate che ricordano i “ghats” di Varanasi; i piccoli e semplici agglomerati urbani fatti di qualche casetta intorno ad un tempio che arricchiscono qua e la le alte sponde; i pescatori su barche poco più grandi di gusci di noce che, gettando e riprendendo le reti, mettono alla prova il loro equilibrio; le mandrie di bufali allo stato brado che vengono ad abbeverarsi e a trovare refrigerio nelle acque del Mekong.
Poi ci sono loro, i cercatori d’oro, sui quali vale la pena di andare a cercare qualche informazione in più e spendere magari due parole.
La curiosità mi è venuta quando durante la navigazione, sulla sponda occidentale del fiume, ho visto qua e la persone chine sull’acqua con i piedi a bagno e qualcosa, che da lontano poteva ricordare un setaccio, fra le mani.
“Cercano oro” mi ha detto il barcaiolo come se tutto questo fosse normale e come se, invece di essere nel Laos dei giorni nostri, fossimo in realtà nel Klondike del 1896.
Orbene, ammetto la mia ignoranza e navigando, questa volta in rete e non sul fiume, apprendo che il Laos è stato classificato come uno dei paesi più ricchi di risorse minerarie dell’Asia, con oltre 570 giacimenti minerari identificati di cui una buona parte di miniere d’oro che vantano una produzione totale di oltre 40 tonnellate all’anno.
I laotiani, hanno iniziato a cercarlo fin dai tempi della guerra quando le bombe, cadendo e smuovendo le rocce, hanno evidenziato la presenza di oro.
Nelle zone fluviali compresa l’area tra Pak Ou e Luang Prabang, la ricerca di oro veniva spesso svolta da minatori artigianali o da comunità locali che utilizzavano tecniche tradizionali come il lavaggio del sedimento del fiume in piccole bacinelle per separare il metallo prezioso dai detriti, tecniche che possono avere impatti significativi sull’ambiente e sulle comunità locali.
Nel processo di ricerca dell’oro, ad esempio, è frequente l’uso del mercurio. Una pratica molto comune tra i minatori artigianali e i cercatori d’oro quasi ovunque nel mondo per estrarre l’oro dalle sabbie fluviali e separarlo poi dai sedimenti. Il mercurio, mescolato con il materiale estratto che contiene l’oro, crea una lega, una amalgama di mercurio-oro che successivamente viene riscaldata per separare il mercurio, lasciando dietro di sé l’oro grezzo. Questa procedura è relativamente semplice e può essere realizzata con risorse limitate, il ché la rende facilmente praticabile per i minatori artigianali. Tuttavia la presenza proprio del mercurio rende questa pratica altamente inquinante.
C’è sempre molto da imparare.
Attualmente la ricerca dell’oro è stata affidata ad alcune immancabili società cinesi che hanno ottenuto dal governo la concessione sull’estrazione del metallo prezioso. Ai poveri minatori artigianali, quindi, sembra essere negata anche quella modesta forma di arricchimento. Anzi, se per sbaglio o per dolo si ritrovano a cercare oro nella zona sbagliata, rischiano l’arresto per violazione di domicilio, come è accaduto qualche anno fa a tre abitanti di un villaggio rurale.
Le miniere, quindi, appartengono di fatto ai cinesi, che sono in possesso delle concessioni e che hanno il diritto di trasferire il metallo prezioso in Cina finché è in vigore la concessione di 50 anni. Tuttavia, se le concessioni hanno contribuito alla crescita economica del Laos, per gli abitanti delle zone interessate non c’è stato né arricchimento né miglioramento della qualità della vita, hanno invece visto sottrarsi, nella migliore delle ipotesi, i terreni senza un adeguato compenso, mentre nell’ipotesi peggiore hanno visto un aumento dell’inquinamento sia del terreno sia delle acque.
Le grotte di Pak Ou intanto si avvicinano. La barca ormeggia, si paga il biglietto e iniziano le scale. Sí, le scale, perché quella che chiamano grotta inferiore è situata ad una ventina di metri sopra il livello del fiume, quindi c’è da sgambare fra scalini, come sempre di altezza irregolare e di larghezza quasi sempre inferiore alla scarpa numero 44 che io calzo, e fra laotiani appostati strategicamente lungo il percorso che non ti chiedono elemosina, ma cercano solo di venderti dei braccialetti di lana più o meno elaborati, o bevande, o cibi locali. Sono tutti lì nella loro semplicità e nella loro dignità: bambini che smettono di giocare quando si avvicina il visitatore, donne che appoggiano su griglie improvvisate spiedini di qualche carne che è meglio non sapere cos’è, madri che allattano e ti sorridono. Già, ti sorridono, ma non con un sorriso ipocrita che vuole indurti all’acquisto: ti sorridono con uno sguardo dolce, amichevole, disarmante.
Intanto, arrancando di scalino in scalino su quelle specie di barriere architettoniche, riesco a raggiungere finalmente l’agognata grotta inferiore. E che non si pensi che arrivati alla grotta sia finita: accedi, guardi sulla destra dove in uno spazio ristretto trovano posto i venditori di oggetti religiosi… incensi, candele e via dicendo, poi alzi lo sguardo e vedi un’altra scalinata, ripida ma breve per fortuna, che ti dà l’accesso a qualche migliaia di divinità di ogni posizione e dimensione. Quando sei arrivato al piano superiore (che, capiamoci bene, non è la seconda grotta) e hai tirato il fiato, l’effetto è senza dubbio d’impatto: le statuette di Buddha protette dalla penombra sono baciate a certe ore del giorno da qualche raggio di sole che entra furtivo nella grotta e che le fa brillare come se splendessero di luce propria, conferendo all’ambiente un’atmosfera mistica di devozione e tranquillità. Questo ti permette d’immergerti nella spiritualità del luogo, assaporando quell’odore di pace misto a quello dell’incenso.
Guardi verso fuori attraverso una cavità della grotta e il paesaggio ti ripaga, in un attimo e in uno sguardo, dalle fatiche della salita; torni a guardare il primo spazio della grotta, quello su cui è posizionato un altare e, se sei fortunato, puoi assistere alle preghiere dei fedeli che si prostrano davanti alle immagini, bruciando gli incensi e accendendo le candele appena acquistate. E giù inchini, genuflessioni, mani giunte, in un momento che, lungi dall’avere quegli aspetti cupi che magari hanno altre religioni, nella sua leggerezza e nella sua semplicità, carica la grotta di una spiritualità e di una energia così “presente” che quasi la si potrebbe toccare con le mani.
Ma non è finita qui, e dobbiamo salire ancora verso la seconda grotta, quella superiore che è situata a circa 60 metri sopra il livello del mare…
Plus ultra
Raccolgo le mie forze, faccio finta di ignorare il caldo e ricomincio la salita. Non ci sono scalini questa volta, ma non per questo il percorso è meno faticoso. Uno slalom educato fra i vari gruppi di venditori e mamme allattanti, una sosta ogni tanto per rifiatare, ed ecco che si comincia a vedere l’agognata meta.
Ci sono due donne con i loro bambini, un ragazzino e una ragazzina rispettivamente di 11 e 10 anni. Il primo mi accompagna dentro la grotta, guida improvvisata e silenziosa, rispondendo timidamente alle mie domande, mentre la ragazzetta aspetta fuori, più sicura di sé, concedendosi poi ad una mia breve intervista.
Quanto è importante e quanto mi coinvolge, in un viaggio di questo tipo, l’aspetto umano. Quanto è bello potere scambiare poche battute con le persone che ti circondano, creandoti l’illusione di avere così penetrato l’anima di un paese, che in realtà resta ben serrata nei loro cuori, e che ci vorrebbe invece una vita per comprenderla. Poche battute che stabiliscono un contatto effimero ma ricco di calore umano, di cui vorrei che quei miei interlocutori di un momento, quelle e quei “passanti”, come li definirebbe George Brassens, portassero una briciola di ricordo.
Io serberò il ricordo di quegli occhi, di quei visi e di quei sorrisi che si mimetizzano con la natura circostante e con, torniamo sempre lì, la spiritualità che permea ogni angolo di questo paese.
Il Laos è sopratutto questo.
All’interno, la grotta si estende per una cinquantina di metri ed è piuttosto buia nella parte posteriore. Entrando sulla sinistra, accendiamo un paio di bastoncini di incenso e una candela nell’immancabile altarino. I maligni dicono che è il ringraziamento per la grazia ricevuta di avermi fatto arrivare vivo fin quassù. Proseguendo verso l’interno, troviamo anche qui qualche centinaia di statue statuine e statuette di Buddha.
“La conservazione del santuario di Tam Ting è un compito costante. Ogni aprile, nell’ambito delle cerimonie religiose annuali, i santuari vengono puliti e le superfici dipinte rinnovate. In questo periodo i fedeli portano le loro statue domestiche del Buddha per lavarle con l’acqua santa.”
Recita diligente uno dei tanti fogli illustrativi consumati dal tempo e dall’umidità. E prosegue informandoci che:
“Nel 1992, il governo australiano e quello laotiano hanno avviato un progetto di conservazione della durata di cinque anni che ha permesso di registrare e catalogare le sculture, scavare sei tonnellate di detriti caduti, ricostruire le strutture murarie e conservare molti degli oggetti. Per quanto possibile, tutto il materiale storico è stato conservato.”
La nostra visita termina con il percorso in discesa, molto meno faticoso, per tornare alla barca. Andiamo via lasciandoci alle spalle la suggestione delle grotte e portandoci nel cuore il ricordo “di quegli occhi, di quei visi e di quei sorrisi che si mimetizzano con la natura circostante”, in questo viaggio incantato tra pagode scintillanti, panorami mozzafiato e persone entrate in punta di piedi, e in punta di piedi uscite, dalle nostre vite.