“L’India è la culla del genere umano, il luogo di nascita del linguaggio umano, la madre della storia, la nonna della leggenda e la bisnonna della tradizione. i nostri materiali più preziosi e più istruttivi nella storia dell’uomo sono custoditi solo in India“.
Parole dello scrittore americano Mark Twain, che con due pennellate, fa un quadro parecchio preciso di quello che l’India rappresenta nell’ambito delle civiltà mondiali e, onestamente, è molto difficile non essere d’accordo, sia pure con qualche riserva visto che il titolo di culla del genere umano se lo contende con la Mesopotamia.
Per la verità avevo creduto di essere originale quando ho preso in prestito quelle parole, ma poi mi sono accorto che altri prima di me avevano già riportato questa citazione il che, se da una parte mi fa sentire alquanto banale, dall’altra, evidentemente, un fondamento di verità ci dovrà pur essere. Infatti, alcuni testi parlano di una civiltà evoluta e raffinatissima, esistente lungo la valle dell’Indo già ottomila anni fa, che ha permeato di sé tutte le culture successive d’Oriente e d’Occidente.
Se è vero che scrivere un testo, che si tratti di un blog o di qualcosa d’altro, alla fine e semplificando molto, altro non è che mettere in sequenza una serie di aggettivi qualificativi, scrivere dell’India, questo paese dai grandi numeri, significa che gli aggettivi li devi usare praticamente tutti, e spesso occorre usare addirittura dei superlativi. Il subcontinente indiano, infatti è tanto di tutto. Da una stima delle Nazioni Unite risalente al 2005, ad esempio, in questo 2022, l’India dovrebbe apprestarsi a diventare il paese più popoloso del mondo e, benché sia presto per avere dati definitivi, anche grazie a quella che è stata la politica cinese del figlio unico, sono quasi certo che stanno per diventarlo.
Per restare in tema di grandi numeri in India, culla di civiltà e di religioni, si adorano 33 milioni di divinità Indù, venerate in 20 lingue principali e in oltre 2000 dialetti.
E a proposito di lingue e dialetti l’ex Shah di Persia Mohammad Reza Pahlavi diceva che “L’India […] è un’incredibile amalgama di razze, culture, religioni e linguaggi. Non esiste nemmeno una lingua nazionale comune. Al Parlamento, per capirsi, i deputati sono costretti a parlare in inglese”.
In occasione del festival Indù delle luci, il Diwali, una delle più antiche e importanti feste che si celebra per simboleggiare la luce interiore che protegge dall’oscurità spirituale, sono state accese 600 mila lampade ad olio, che hanno brillato per 45 minuti, nella sola città di Ayodhya, mentre nel luglio del 2016 sono stati piantati 50 milioni di alberi nello stesso giorno nell’unico stato dell’Uttar Pradesh per cercare di mettere un freno all’emergenza smog.
Vista così l’India sembra quasi essere solo un susseguirsi di numeri freddi e impersonali, una specie di “frequenza geografica di Fibonacci” ma, anche se questi numeri ci danno una immagine, per così dire, quantitativa di questo paese, immagine che per altro non va trascurata, è estremamente limitativo identificare l’India solo attraverso i numeri.
No, l’India è molto di più. È la varietà di paesaggi che vanno dalle vette montane, che nel nord accarezzano l’Himalaya, fino alle spiagge di Goa, passando attraverso i deserti del Rajastan; è il caos delle sue metropoli, è la pace nella meditazione, è il Taj Mahal che risplende con i colori delle prime luci dell’alba e le ultime luci del tramonto; è l’isolamento, protetto dal governo Indiano, della tribù che vive nella North Sentinal Island, nell’arcipelago delle Andamane e che rifiuta ogni forma di contatto con gli estranei; è il fumo della pira funebre che si inalza a Benares, i fedeli che si bagnano nelle sacre acque del Gange e l’allegria kitch di Bolliwood; è il Punjab dei Sikh, gente che ha spesso pagato con bagni di sangue la propria fierezza sia sotto gli oppressori inglesi sia, al termine della colonizzazione, sotto il governo di Indira Gandhi, che ha a sua volta pagato con la vita le repressioni da lei stessa ordinate contro di loro.
In India sono nati Siddhārtha Gautama “il Buddha”, il poeta Rabindranath Tagore e il Mahatma Gandhi anima e cuore, quest’ultimo, di quella disobbedienza civile di massa che ha portato il paese all’indipendenza; ma l’India è anche la divisione in caste, i poveri che non hanno un tetto o che vivono negli slums, gli uomini cavallo di Calcutta, le migliaia di vacche sacre che vagano indisturbate nelle strade, nei vicoli e nei negozi. L’India è quella “sensazione di fastidio e di rifiuto che si attenua con il passare dei giorni” (Cit. Ruggero Da Ros).
E ancora, l’India una volta proclamata l’indipendenza nel 1947, ha iniziato a riprendersi una propria identità buttando via quel bagaglio superfluo lasciato dagli antichi colonizzatori. Addio allora alla giacca, alla cravatta e alla bombetta, così estranei ai costumi e così inadatti al clima tropicale, per tornare a un abbigliamento più pratico e tradizionale, via i nomi delle strade con i loro riferimenti inglesizzanti, via tutto quello che gli inglesi si erano portati dietro per rendere più comoda la loro permanenza. Beh… quasi tutto… il cricket gli indiani se lo sono tenuto e, per chi ci capisce, sembra che lo giochino pure bene.
Via sopratutto ai vecchi nomi che avevano almeno per noi occidentale quel suono esotico, quell’odore acre dell’oriente, che ha sempre trasportato la fantasia in una atmosfera fatta di sogni e di mete lontane. Addio a Bombay, Madras, Calcutta e Benares, che al solo nominarli ti pareva di sentire l’odore dei paciuli che bruciavano, e benvenuto, un po’ a malincuore, a Mumbay, Chennay, Kolkata e Varanasi.
Poi c’è la mia India, quella dei miei ricordi, quella di Bruno, un mio vecchio amico che, una cinquantina di anni fa, già viaggiava in India per lunghi periodi dell’anno e, fra i tanti racconti mi colpì in particolare quando mi disse che andava sempre in giro con una mangusta al guinzaglio per difendersi dai cobra; o quella di mia nonna che dopo aver sgranato il suo rosario, prima di addormentarsi leggeva le poesie di Tagore evidenziandone la purezza e la dolcezza dei versi e fantasticava, alla tenera età di novant’anni, di andare a Puttaparthi, nell’India meridionale, per incontrare il santone Sai Baba ed ascoltarne gli insegnamenti.
Forse è vero, per ogni viaggio che ci si prepara a fare, è stato piantato in precedenza un semino che germoglia con l’avvicinarsi della partenza e che cresce giorno dopo giorno quasi volesse aggiunge un ulteriore senso alle motivazioni che già ti spingono ad andare a visitare questo o quell’altro paese. E il semino dell’India sta quasi per diventare fiore.
Niente accade per caso.
Il viaggio che ci prepariamo ad affrontare in India, è anche “amico” e “nipote” di quei semini piantati a suo tempo da Bruno e da mia nonna che oramai da tempo non sono più fra noi.
Un viaggio che ci condurrà nella parte settentrionale del paese, che partirà da New Delhi e che proseguirà verso le zone a ridosso del confine col Pakistan, ad Agra con il suo meraviglioso Taj Mahal e sulle sponde sacre del Gange che scorre compresso fra i “Gaht” di Benares; andremo nel Punjab dei Sikh e nel deserto del Rajastan, magari a dorso di cammello. Una regione tanto varia quanto bella, grande e pittoresca dove il relax spirituale si alterna ad avventure adrenaliniche, a templi e paesaggi che non possono lasciare indifferente nessun tipo di viaggiatore.
Credo che una scoperta approfondita dell’India necessiti di un viaggiatore maturo e facilmente adattabile che sappia affrontare con una certa dose di adattamento situazioni che possono rivelarsi anche piuttosto scomode ma che possa trarre insegnamenti da ogni situazione che andrà ad incontrare perché l’India può essere una maestra di vita esigente e tornare senza aver fatto tesoro di quanto questa esperienza possa insegnare, non farebbe che ridurre il viaggio ad uno scorrere di anonime diapositive.