In Laos sono le 7:30 di una mattina che promette bene, il cielo è azzurro e i primi raggi di sole accompagnano i miei passi lenti lungo la lieve salita nella terra di nessuno dove, intorno ad un cartello di benvenuto con un macroscopico errore di Inglese, delle aiuole ben curate ti dicono che oramai stai entrando in Cina. Sono solo pochi minuti di passeggiata e un’ora avanti per il fuso orario, ma in questa ora e in questi due o trecento metri che separano i due paesi ti sembra quasi di avere fatto il Grande Balzo in Avanti.
Assaporo questo breve passaggio come un cinese si gusta un tè, mi attardo ad ammirare una farfalla gialla immobile fra le foglie, osservo i pochi laotiani e cinesi che passano da un paese all’altro, i camion incolonnati in attesa di vedere le loro merci ispezionate, e solo allora mi rendo conto di essere l’unico europeo. Ignoro una macchina elettrica che per pochi spiccioli fa attraversare comodamente il breve tratto che separa non solo due paesi ma due concezioni di vita, due realtà che, benché accomunate da una medesima ideologia, non possono essere più diverse fra loro. È come passare in un momento solo attraverso due stagioni belle entrambe nella loro diversità: da un autunno un po’ triste e dai colori pastello del Laos ad una primavera vivace fatta dei colori dei fiori che sbocciano.
Mi accoglie un posto di frontiera moderno, ancora semi-deserto data l’ora, poche guardie. Mi dirigo verso la prima che incontro la quale, gentile e sorridente, inserisce il mio passaporto in una macchina, lo scannerizza, aggiunge il numero del visto ed improvvisamente, con mia grande sorpresa, un voce metallica, in italiano, mi invita a premere il bottone per stampare la mia carta d’immigrazione. Sorrido divertito e comincio ad avere la sensazione di essere entrato in un mondo diverso, quasi fiabesco, io, moderno Alice nel Paese delle Meraviglie.
Proseguo; arrivo al banco del controllo passaporti dove un altro doganiere, sempre gentile e sempre sorridente, fa i suoi controlli, mette i suoi timbri e mi riconsegna il passaporto indicandomi con lo sguardo una macchinetta sistemata sul bancone, alla mia sinistra: alcuni ideogrammi incomprensibili e sotto quattro faccine, come gli “smile” delle chat, dalla “tristissima” alla “contentissima” ti chiedono di dare una valutazione sul servizio ricevuto. Do il massimo dei voti sotto lo sguardo soddisfatto della guardia e dopo pochi passi, col mio zaino sulle spalle, entro finalmente in Cina.
Il viaggio, che da un certo punto in poi doveva essere rigorosamente via terra, era iniziato il giorno precedente con un bus locale che da Chiang Rai, nel nord della Thailandia, ha coperto i circa 130 km per raggiungere Chiang Khong in poco più di tre ore fra risaie, piantagioni e il verde riposante delle colline Thai. Con un tuk tuk arrivo al fiume Mekong, che segna il confine fra i due paesi. Poche decine di chilometri a nord ovest, il Triangolo d’Oro e le sue suggestioni, e di fronte a me, al di la del fiume, ancora una volta il Laos.
È una semplice barca locale quella che in pochi minuti mi porterà sull’altra riva del Mekong e, tra lo scorrere lento del traffico fluviale, vedo la costa avvicinarsi, vedo ingrandirsi di fronte a me le persone intente nelle loro attività di carico e scarico delle merci, vedo il Laos venirmi incontro.
Il Laos non sembra affatto cambiato dall’ultima volta che l’ho visitato circa sei anni fa: Il paesaggio, è sempre incantevole con le sue colline, le montagne, i suoi percorsi fatti di salite e discese, i suoi villaggi con le piccole case in legno, collocate sul ciglio della strada dove appaiono qua e là quasi a volere spezzare la monotonia di un paesaggio fin troppo verde.
La vita scorre secondo i ritmi di sempre, i ritmi di una vita contadina scandita dalla natura e fatta di giornate quasi tutte uguali fra loro: all’alba piccoli gruppi di persone incolonnati lungo la strada raggiungono le piantagioni; nei mercatini locali, fatti di merci povere e di tanta frutta, ferve una lenta attività, la gente si incontra, parla, compra, vende. Fuori da qualche capanna adibita a spaccio, giovani e vecchi passano indolenti la loro giornata guardando il traffico che passa e conversando fra loro mentre i bambini, come tutti i bambini del mondo, giocano e corrono, ancora in parte spensierati, in attesa che anche per loro venga il tempo di aiutare nei campi.
Il sole sorprende i contadini chini nelle risaie a piantare o a raccogliere quella preziosa offerta della terra, risorsa principale del “Regno di un milione di campi di riso”, o ad arare i campi con vecchi aratri tirati da bufali d’acqua, aiutati dalla spinta di uomini col capo coperto dal tradizionale cappello di vimini a cono. Non di rado qualche donna sul ciglio della strada lava i panni in qualche ruscello che scorre nei dintorni; altre si muovono verso il mercato con una gerla vuota sulle spalle da riportare piena per la cena; un giovane monaco con la tunica color zafferano si avvicina in bicicletta; vecchi seduti sulle soglie delle case guardano distrattamente i bambini che giocano e il mondo che li circonda, assorti in chissà quali pensieri. Mi piace immaginarli che vagano con la mente attraverso i loro ricordi di una gioventù oramai andata, che per molti di loro ha rappresentato guerra, privazioni, bombe e sofferenza. Ai lati si scorgono cani e maialetti selvatici che pigramente si lasciano passare la vita addosso dormendo o mangiando.
E intanto arriva il tramonto: la gente torna dai campi sempre in colonna, con i loro poveri fardelli e i loro attrezzi sulle spalle, i mercati rimuovono le merci e cominciano a chiudere, gli spacci si arricchiscono di qualche avventore che si attarda con qualche bicchiere di liquore locale mentre i bambini, solo loro, continuano a giocare sereni, per quanto possa dare serenità la povertà che li circonda. Tutti in attesa che, l’indomani, inizi un altro giorno.
La presenza dei giovani nelle zone agricole si nota, a differenza della vicina e più moderna Thailandia dove i giovani tendono ad urbanizzarsi, trovando nelle città una valida alternativa di vita. In Laos invece sembra che questa alternativa manchi. Se si escludono la capitale Vientiane e qualche località in cui il turismo ha avuto uno sviluppo maggiore, come Luang Prabang o le cosiddette 4000 isole, il paese mantiene il suo carattere prevalentemente agricolo e anche la mancanza di sbocchi sul mare limita di molto modelli di sviluppo più elevati. Per gli spostamenti e i trasporti ci sono le strade, che definirei più che decenti, e sopratutto i canali e il fiume. Tutto questo fa sì che il Laos rurale sembra essere sempre lo stesso, un paese dai cambiamenti esasperatamente lenti rispetto al mondo che lo circonda e che corre, invece, in maniera forsennata.
Vista dall’esterno la bellezza del Laos, oltre che nei templi di Luang Prabang, sta proprio in questo: un viaggio a ritroso nel tempo, una popolazione pressoché incontaminata, ritmi regolati dalla natura che per noi, che la vediamo da occidente, sembrano essere molto più a misura d’uomo, una forma di spiritualità che si respira ancora oggi in ogni angolo del paese.
Un vecchio detto coloniale francese, che rende abbastanza bene l’idea dei laotiani e della loro proverbiale calma e serenità, recita: “i vietnamiti piantano il riso, i cambogiani lo guardano crescere, i laotiani ascoltano il riso che cresce” e se è vero che il riso rappresenta in quest’area geografica la principale risorsa alimentare, quindi la vita, questo “ascoltare il riso che cresce” sembra volere evocare le immagini di un popolo attento ad ascoltare l’essenza della vita stessa.
Arrivo a Luang Namtha che è già buio, una cena frugale al bazar locale, un caffè nero e senza zucchero che poco si scosta da un veleno consumato prima di andare a dormire, e il pernottamento in una pensione molto economica prima di proseguire verso il tanto sospirato confine cinese, mi fanno assaporare il gusto del viaggio appena iniziato.